Agenzia delle entrate: Immobili commerciali in locazione tassabili pure i canoni non riscossi
In tema di imposte sui redditi, in base al combinato disposto
dagli articoli 23 e 34 del Dpr 917/1986 (Tuir), il reddito degli
immobili locati per fini diversi da quello abitativo – per i quali
opera, invece, la deroga introdotta dall’articolo 8 della legge
431/1998 – è individuato in relazione al reddito locativo fin
quando risulta in vita un contratto di locazione, con la
conseguenza che anche i canoni non percepiti per morosità
costituiscono reddito tassabile, fino a che non sia intervenuta la
risoluzione del contratto o un provvedimento di convalida dello
sfratto.
Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 348 del 9 gennaio
2019.
La vicenda processuale e la pronuncia della Cassazione
La vicenda riguarda due comproprietari di un immobile
commerciale locato a una Srl, di cui gli stessi erano soci. La
società si era da sempre resa inadempiente al pagamento dei canoni
di locazione; per questo, i contribuenti dichiaravano la sola
rendita catastale.
Nel 2006, l’Agenzia delle entrate notificava un accertamento per
recuperare le imposte sui canoni di locazione non dichiarati: poche
settimane dopo, le parti stipulavano la risoluzione del contratto
con effetto retroattivo a partire dal giorno successivo alla
stipula dell’atto.
Sia la Ctp che la Ctr respingevano le doglianze del contribuente
ritenendo che, in base alla normativa vigente ratione
temporis, il locatore di immobili commerciali ha l’obbligo di
dichiarare il reddito derivante dai canoni di locazione, ancorché
non effettivamente percepiti.
Secondo il contribuente, andava considerata l’intervenuta
risoluzione del contratto, che escludeva dall’imposizione i canoni
di locazione non percepiti, data la natura retroattiva che ne
avevano dato le parti.
Secondo la Cassazione, alla risoluzione consensuale del contratto
di locazione, non è possibile riconoscere un effetto naturalmente
retroattivo, escluso, in via generale, dalla disposizione di cui
all’articolo 1458 del codice civile, comma 1 (dettata in tema di
risoluzione per inadempimento ma applicabile, salva diversa volontà
delle parti, anche alla risoluzione consensuale), secondo la quale,
nei contratti a esecuzione continuata o periodica, l’effetto della
risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite, per cui
non viene meno l’obbligo di pagamento del canone di locazione per
il periodo, precedente alla risoluzione, durante il quale il
conduttore ha goduto (o avrebbe potuto godere) della disponibilità
dell’immobile locato.
Il solo fatto dell’intervenuta conclusione consensuale del
contratto di locazione, unito alla circostanza del mancato
pagamento dei canoni relativi a mensilità anteriori alla
risoluzione, non è dunque idoneo di per sé a escludere che tali
canoni concorrano a formare la base imponibile Irpef, ai sensi
dell’articolo 23 del Tuir, salvo che non risulti l’inequivoca
volontà delle parti di attribuire alla risoluzione efficacia
retroattiva (e impregiudicata, peraltro, ogni valutazione in ordine
alla opponibilità di tale eventuale retroattività
all’amministrazione finanziaria).
Proprio in relazione a questo aspetto, la Cassazione ha sempre
sostenuto che, ai sensi dell’articolo 1372, comma 2, cc, la
successiva risoluzione del contratto per mutuo dissenso non può
avere alcuna rilevanza nei confronti dei terzi e, a maggior
ragione, nei confronti dell’Erario (cfr Cassazione,
29745/2008 e 9445/2014).
Ulteriori osservazioni
L’articolo 26 del Tuir stabilisce che i redditi fondiari,
compresi quelli da locazione, concorrono, indipendentemente dalla
loro percezione, a formare il reddito complessivo del
possessore.
La legge sulle locazioni (431/1998) ha introdotto, per i soli
immobili a uso abitativo, la disposizione che sterilizza, ai fini
fiscali, i canoni non percepiti ma solo a partire dalla conclusione
del procedimento di convalida di sfratto.
Si poneva, quindi, il problema relativo agli immobili a uso
commerciali e alla possibile disparità di trattamento suscettibile
di censura di costituzionalità: sul punto, è intervenuta dapprima
la Corte costituzionale, poi l’amministrazione finanziaria. Questa,
con la circolare 11/2014, ha precisato che “per le locazioni di
immobili non abitativi (…) il relativo canone, ancorché
non percepito, va comunque dichiarato, nella misura in cui risulta
dal contratto di locazione, fino a quando non intervenga una causa
di risoluzione del contratto medesimo”.
Lo stesso documento ha inoltre evidenziato che “… la Corte
Costituzionale, con la sentenza n. 362 del 2000, ha ritenuto non
fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 23
(ora articolo 26) del TUIR in quanto il sistema di tassazione che
presiede alle locazioni non abitative non risulta gravoso e
irragionevole dal momento che il locatore può utilizzare tutti gli
strumenti previsti per provocare la risoluzione del contratto di
locazione (dalla clausola risolutiva espressa ex art. 1456 del
codice civile, alla risoluzione a seguito di diffida ad adempiere
ex art. 1454, alla azione di convalida di sfratto ex. art. 657 e
ss. del c.p.c.) e far riespandere la regola generale di
attribuzione del reddito fondiario basata sulla rendita
catastale”.
In altri termini, si può affermare che il contribuente resta tenuto
a dichiarare i canoni di locazione relativi a immobili non
abitativi, anche se non percepiti, fino a quando non possa
dimostrare che è intervenuta la risoluzione del contratto sulla
base delle richiamate disposizioni civilistiche.
Nel caso in cui il contribuente produca copia del provvedimento
giudiziale di convalida di sfratto per morosità, a partire dalla
data del medesimo provvedimento è possibile considerare sicuramente
risolto il contratto di locazione a uso commerciale.
Al riguardo, la Cassazione, con la sentenza 651/2012, ha precisato
che il procedimento di convalida di sfratto per morosità ha
qualificazione giuridica mista, in quanto diretto non solo al
rilascio del bene, ma anche alla risoluzione del contratto in
funzione costitutiva.
Con la sentenza 19602/2013, la suprema Corte ha affermato che il
procedimento di convalida di sfratto per morosità è utilizzabile
dal locatore non soltanto per far valere un’azione di risoluzione
del contratto di natura costitutiva, ma anche per far valere
un’azione di accertamento dell’intervenuta risoluzione di diritto
del contratto locativo in un momento antecedente, per effetto di
una delle cause di risoluzione del contratto per inadempimento
disciplinate dagli articoli 1453 e seguenti del codice civile, ad
esempio, per effetto di diffida ad adempiere (articolo 1454 cc),
clausola risolutiva espressa (articolo 1456 cc), termine essenziale
(articolo 1457 cc).
Invero, è molto frequente che nei contratti di locazione sia
presente una clausola risolutiva espressa ai sensi dell’articolo
1456 cc, con la quale i contraenti convengono espressamente che il
contratto si risolva di diritto qualora l’obbligazione del
pagamento del canone non sia adempiuta secondo le modalità
convenute.
In tal caso, il giudice può accertare l’inadempimento del
conduttore e il conseguente effetto risolutivo del contratto, anche
a una data antecedente a quella del provvedimento di convalida di
sfratto.
Esclusa invece, come dimostrato dalla pronuncia in commento,
la possibilità di far valere in via retroattiva la risoluzione che
derivi da motivi di mutuo dissenso.