Abusi edilizi e vincoli paesaggistici: il requisito della doppia conformità
Il TAR interviene sulle opere abusive, i vincoli paesaggistici e il requisito della doppia conformità
Si torna a parlare di opere abusive e vincoli paesaggistici. E per farlo studiamo e analizziamo una interessante sentenza emessa dal Tar Lazio (n. 11171/2020) che mette di fronte due proprietari di immobili e un comune laziale.
Il fatto e il motivo del ricorso
Due distinti proprietari di altrettanti immobili hanno proposto ricorso sull'ordine di demolizione per opere abusive ricevuto da un comune laziale. I due fabbricati, in parte utilizzati anche come abitazione, ricadono in area "boscata" e quindi vincolata dal punto di vita paesaggistico. Durante alcuni interventi di ristrutturazione, il comune ha riscontrato diverse irregolarità. Per alcuni di questi ha parlato di "inteventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità", per altri, invece, di "interventi di nuova costruzione", ingiungendo, dunque, la demolizione. Per i legali dei nuovi proprietari, il comune ha sbagliato, agendo solo nei confronti degli attuali proprietari ed acquirenti in buona fede (di questo argomento ne avevamo già parlato). Per quanto riguarda l'area boscata, secondo i legali che hanno seguito il ricorso, "il comune avrebbe operato un generico riferimento all’incidenza del vincolo senza meglio precisare quale parte dei plurimi interventi abusivi in constatazione sarebbe effettivamente gravata dal vincolo in questione". Il vincolo, secondo i legali "insisterebbe soltanto su parte delle aree limitrofe al sedime dei fabbricati destinate a “corte/giardino” degli stessi". L'amministrazione, quindi, avrebbe dovuto comminare una multa, piuttosto che un ordine di demolizione.
Ordinanza di demolizione e richieste di sanatoria
Avendo ricevuto l'ordinanza di demolizione, i due nuovi proprietari hanno presentato istanze per "sanare gli abusi rilevati". Nel ricorso, viene impugnato il silenzio-rigetto del comune che aveva, in realtà, preavvisato i due proprietari degli immobili del diniego della sanatoria, invitandoli, entro dieci giorni, a presentare memorie difensive. Cosa non avvenuta.
La mancanza del requisito della doppia conformità
Il comune non ha dubbi. Le richieste di sanatoria presentate dai due proprietari dei fabbricati non possono essere accettate, in quanto "la proposta dei ricorrenti di realizzare nuove opere edilizie volte a rendere i manufatti in contestazione conformi alla normativa urbanistico/edilizia vigente disvelerebbe l’assenza del requisito della doppia conformità, indefettibile per la concessione della sanatoria". Per i legali, però, il Comune non avrebbe chiarito né quali siano, in concreto, le opere proposte dai ricorrenti al fine di conformare l’abusiva attività edilizia oggetto di sanatoria né quale siano le disposizioni ostative al condono. E ribadiscono che gli abusi sarebbero sanabili in considerazione del mancato utilizzo di tutta la volumetria autorizzata dal comune con i titoli edilizi rilasciati anni fa e dell’asserito rispetto del parametro della doppia conformità nonché della pretesa natura non “essenziale” delle variazioni realizzate sine titulo, come tali non computabili ai fini volumetrici e, quindi, assentibili nella zona agricola oggetto di intervento.
Il silenzio-rigetto
E' stato contestato il fatto che l'amministrazione non abbia definito il procedimento in forma esplicita, piuttosto che utilizzare il silenzio-rigetto. Per i giudici del Tar Lazio, però, "è pacifico in giurisprudenza che la questione legata all’inutile decorso del termine di 60 giorni per la decisione sulla domanda di accertamento di conformità, non consuma il potere dell'amministrazione di provvedere, in forma espressa, in ordine alla sussistenza dei presupposti per la sanatoria". Per il Tar, dunque, "il silenzio-rigetto non equivale, in realtà, ad un provvedimento esplicito, ma è un semplice presupposto di fatto che consente all'interessato di rivolgersi al giudice amministrativo senza attendere oltre, non comportando alcuna consumazione del potere della pubblica amministrazione né un venir meno dell'obbligo di quest’ultima di provvedere". Nel caso in esame, il comune laziale, dopo tre mesi rispetto alle istanze di ricorso presentate, ha scritto le ragioni del diniego. Per i giudici, un fatto "legittimo" e che non fa perdere "il relativo potere al comune".
Il rilascio del permesso di costruire in sanatoria
Nel caso analizzato, i due proprietari dei fabbricati hanno presentato richiesta di sanatoria inserendo significativi interventi edilizi ed evidenziando al Comune quello che sarebbe stato il "Post operam". Interventi che, scrivono i giudici "l’amministrazione non aveva l’onere motivazionale di dettagliare, trattandosi di interventi ben noti ai ricorrenti per essere stati dagli stessi proposti – e che sono stati intesi, correttamente, come ostativi alla sanatoria in quanto rivelatrici dell’assenza del requisito della doppia conformità urbanistico/edilizia". Il rilascio del permesso di costruire in sanatoria impone, quale presupposto indefettibile, l'accertamento della conformità alle prescrizioni urbanistiche dell'intervento edilizio realizzato senza titolo abilitativo, vale a dire di opere che, pur essendo effettuate senza il preventivo rilascio del titolo abilitativo edilizio, risultino assentibili. Questo è stato fatto per sanare violazioni di carattere esclusivamente formale, consistenti nel mancato rilascio di un titolo edilizio che, ove fosse stato richiesto, sarebbe stato concesso. Per il Tar, "la doppia conformità costituisce tuttavia il presupposto indefettibile della sanatoria ed investe entrambi i segmenti temporali e cioè sia il tempo della realizzazione dell'illecito che il tempo della presentazione dell'istanza. L'Amministrazione è, pertanto, tenuta ad accertare i requisiti di assentibilità dell'intervento edilizio sulla base della normativa urbanistica ed edilizia vigente in relazione ad entrambi i momenti in questione, conducendo, a tal fine, una valutazione essenzialmente doverosa, rigidamente ancorata alle prescrizioni fissate dalla strumentazione applicabile". Nel caso analizzato, dunque, "è evidente come la prospettata realizzazione, da parte dei ricorrenti, di una attività edilizia postuma, espressamente finalizzata a conformare quella realizzata sine titulo alle previsioni urbanistiche vigenti al momento della presentazione delle istanze, disvela di per sé l’inesistenza dei presupposti per la sanatoria".
Vincolo di area boscata e rilascio di autorizzazione
Le richieste di sanatoria sono state rigettate, dal comune laziale, anche perché i due fabbricati si trovano in "area boscata" e quindi gravata da vincolo. Questo vuol dire che era necessaria un'autorizzazione per procedere con i lavori. E l'assenza di questa autorizzazione "è stata considerata ostativa alla sanatoria e ciò a prescindere da regime autorizzatorio urbanistico/edilizio disatteso". Dicono i giudici: "Il vincolo in questione, in presenza di interventi che hanno indubbiamente determinato l’alterazione dello stato dei luoghi, la modifica esterna degli edifici, nonché nuovi volumi e superfici paesaggisticamente rilevanti, imponeva agli istanti di premunirsi di una autorizzazione paesaggistica la cui mancanza osta alla sanatoria urbanistica/edilizia".
I responsabili degli abusi
Ne abbiamo già parlato, ma torniamo a farlo. Nel ricorso viene contestato il fatto che il provvedimento sanzionatorio sia indirizzato solo ai due nuovi proprietari "e non anche di coloro degli effettivi “responsabili” dell’abuso, ossia i rispettivi dante causa". Ci viene in soccorso il Testo Unico dell'Edilizia in cui si legge che "il proprietario dell’opera abusiva è tenuto alla demolizione al pari del soggetto a cui è imputabile la violazione delle norme urbanistico/edilizie (cd. Responsabile dell’abuso)". Questo, dicono i giudici, è stato fatto "per garantire l’effettività del ripristino dell’assetto urbanistico-edilizio violato tutte le volte in cui il "Responsabile dell’abuso", non coincidendo – ovvero non coincidendo più all’esito di vicende traslative - con il soggetto proprietario dell’opera, è privo di quella disponibilità materiale e giuridica necessaria ad ottemperare alle statuizioni demolitorie. Dalla natura “solidale” di siffatta obbligazione discende la legittimità di un ordine demolitorio che – quale quello in esame – è rivolto nei confronti dei soli ricorrenti, quali attuali proprietari degli abusi e non anche dei rispettivi danti causa".
Ordine di demolizione o sanzione pecuniaria?
Ma il comune come deve procedere in questi casi? Emettendo un ordine di demolizione, o proponendo una sanzione pecuniaria? Sul punto il Tar rinvia "a quel costante orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui questa valutazione costituisce solo un'eventualità da apprezzare della fase esecutiva, successiva alla disposta ingiunzione". Quindi la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria "viene valutata in un secondo momento, successivo ed autonomo rispetto alla diffida a demolire ossia quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione in danno delle opere edili costruite. Conseguentemente, l'esito negativo di tale valutazione non può costituire un vizio dell'ordine di demolizione, ma al più della fase di esecuzione in danno". Questo vuol dire che il comune laziale "sarà tenuto ad accertare le conseguenze eventualmente derivanti dalle statuizioni demolitorie di cui all’ordinanza impugnata valutando la possibilità di comminare una sanzione pecuniaria alternativa". Il ricorso, dunque, è stato ritenuto infondato.
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A cura di Redazione LavoriPubblici.it
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