Concorso di architettura: è la strada giusta?
23/12/2015
Da troppo tempo si considera, acriticamente, il concorso di
architettura come il più trasparente e democratico metodo per
fare emergere nuovi talenti e assicurare la
qualità dei progetti pubblici.
Entrambe le lodevoli aspettative risultano troppo spesso
fallaci.
In generale, è opinione corrente e non del tutto peregrina il
suggerire di partecipare a concorsi solo nel caso
si abbia un conoscente in commissione, la mancanza del quale, molto
spesso, ti fa immediatamente scivolare nelle ultime posizioni della
graduatoria, superato da candidati del tutto indifferenti alla
precisa definizione delle aspettative e delle esigenze contenute
nel bando.
Tuttavia il vero mostro dell'idea di concorso
consiste nel fatto che chi redige il bando,
indicando con assoluta precisione un elenco di esigenze, di
vincoli, di funzioni che configurano le sue aspettative, che non
possono che essere espresse sul versante dell'utilitas,
venga regolarmente scavalcato da chi giudica il
prodotto progettuale senza alcuna attenzione alla risposta che esso
fornisce alle aspettative contenute nel bando.
E' come se, sul versante della professione corrente, un committente
indicasse le sue esigenze che poi saranno valutate da un
terzo del tutto estraneo alle esigenze dichiarate, anzi
focalizzato unicamente sugli aspetti per lo più della
venustas, per non dire dei frequenti casi di nepotismo
culturale.
Gli esempi a riguardo sono infiniti. I committenti infatti
pateticamente introducono nella commissione giudicatrice un proprio
funzionario, per lo più fedele conoscitore dei motivi stessi per
cui fu indetto il concorso, della storia attraverso la quale sono
stati codificati i bisogni, della complessa serie di esigenze e
aspettative riportate nell'articolato del bando. Tanta positiva
vocazione, tesa alla sincera volontà di confrontare tra loro
prodotti intellettuali che tuttavia si informino al principio del
rispetto al dettato funzionale, trova immediato
capovolgimento, interferenza brutale e autoritaria per la
presenza di qualche commissario, molto spesso, in verità, un
accademico, che sentenzia sulla base - nel migliore dei casi - di
propri personali pregiudizi figurativi, ovvero -
nel più frequente dei casi - di appartenenze.
E' prova di tale atteggiamento il fatto che troppo poco spesso, in
occasione dei concorsi di progettazione, una commissione
stende un verbale dei suoi lavori di esame dei progetti,
redigendo una tabella di attribuzione di punteggio
sulla base di parametri preventivamente
concordati, qualcosa di simile a quanto avviene per i
bandi di gara di lavori pubblici dove, almeno, ogni peso viene
attribuito a singoli aspetti della produzione del candidato, per
quanto a ciascuno di questi momenti si possa attribuire una
valutazione soggettiva. Ma in questo consiste il valore della
commissione: che una varietà di approcci soggettivi possa alla fine
fare emergere un risultato il più possibile
oggettivo. La partecipazione ad un concorso costituisce di
per sé uno straordinario esempio di diseconomia,
chiamando decine di studi professionali a un impegno intellettuale
e materiale che non si dà in nessuna altra
professione, soprattutto per quegli ingenui e seri
professionisti che indagano le possibili relazioni tra richieste e
forma con serietà ed impegno. Il risultato di tanta negatività
consiste nel fatto che spesso i progetti vincitori sono
inutilizzabili e contribuiscono, nella loro
assoluta estraneità e dilettantistica manifestazione di immaturità,
a negare i motivi stessi per cui un'amministrazione decise di
rivolgersi all'istituzione concorsuale.
E, credetemi non è uno sfogo, ma il risultato di
una convinta consapevolezza maturata in anni di esperienze e
riflessioni sul tema.
Grande sarebbe il piacere di poter approfondire la materia con
colleghi in occasione della stesura di una norma sulla qualità
dell'architettura.
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