DA SVERRE FEHN UNA LEZIONE DI CIVILTA’

03/07/2009

Le mostre di architettura non sono fatte per gli architetti, che per altre vie sono (dovrebbero) essere informati su come si muove il mondo nella edificazione dei luoghi urbani in cui risiede l’umanità, che li ha inventati.
Le mostre di architettura sono fatte per mostrare agli altri - i non addetti, gli abitanti di città specie le frastornanti e invivibili, gli amministratori, i politici - come si procede e con quali criteri e principi nei paesi con lunga tradizione di buona architettura, civile, religiosa, di servizio e d’altro, quando i risultati che si ottengono sono rimarchevoli e degni dunque di essere esibiti.
D’altra parte, il ceto sociopolitico di un paese mette in mostra i propri gioielli di architettura contemporanea quando ha coscienza di essere riuscito a traghettare nel presente, per il tramite di tecnici propri piuttosto che ingaggiati nello star system, lo spirito della sua cultura o di una sua propria riconoscibilità espressiva, dando così forma alle nuove istanze della civiltà dell’abitare in termini innovativi, per sperimentazione di tecniche e di linguaggi, ma sempre caratterizzanti.

La mostra di Architettura contemporanea norvegese, allestita fino al 19 giugno presso la sede dell’Ordine degli Architetti di Palermo, ha avuto difatti due pregi, oltre quello, attribuibile al responsabile del settore Emanuele Nicosia, di proporre frequenti confronti con altre realtà molto attive e fervide in campo architettonico. Uno è quello di permettere a tutti di calarsi in contesti territoriali e paesaggistici assai distanti dai nostri e di osservare quali rapporti alcuni architetti locali riescano ad instaurare con la natura dei luoghi, depositandovi opere contrassegnate da estrema eleganza e leggerezza nelle forme e nelle funzioni.
In un contesto di bellezza discreta, dove gli elementi della natura giocano ruoli primari e intangibili, dove la pratica dell’abusivismo e della devastazione ambientale è sconosciuta, e quindi il paesaggio tenacemente salvaguardato e certamente amato, fa effetto notare, oltre le opere private, quanti "belvedere" pubblici si creino per dare agio a tutti di godere del cono ottico prescelto, e con quanta grazia vi si adagino, configurando quella rara specie di architettura che diventa, come diceva Hélène Tuzet visitando la Bella Italia del primo novecento, “sublimazione della natura”.
Ma sopra ogni cosa salta agli occhi la "calviniana" leggerezza degli interventi e la "loosiana" pulizia dei manufatti, che affidano la propria tensione emotiva ad una stereometria rigorosa e ad una accurata scelta dei materiali da costruzione, poco cemento molto legno, acciaio, mattoni, vetro. E, ovviamente, nessun "ornamento" che non sia la natura che affiora, la roccia, il bosco, la vallata, il paesaggio di cui entra a far parte.

Un bell'insegnamento, per un popolo troppo dedito al calcestruzzo e quindi alla "pesantezza", in ogni senso, degli interventi che usualmente progetta non "dentro" ma "sopra" e "contro" il paesaggio. E non si può parlare dell' architettura norvegese in mostra senza citare il raffinato allestimento che è stato ideato da tre giovani e promettenti architetti palermitani, Fabia Adelfio, Enrico Anello e Vincenzo Marchese, ai quali bisogna dare atto di avere con misurata originalità interpretato lo "spirito" delle opere e dei luoghi – l’albero che, da metafora del rapporto architettura-natura, segna il passaggio della "linfa architettonica" da Sverre Fehn agli allievi Hoelmebakk, Hjeltnes, Jensen & Skodvin, che espongono lavori nati "sulle orme" del Maestro.

Rosanna Pirajno

Fonte: palermo.repubblica.it


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