I Concorsi di progettazione e la sindrome dei Mecenati
di Giuseppe Scannella - 09/02/2020
Nell'affrontare il tema "concorso d'architettura" è utile citare il detto attribuito a Sir Winston Churchill, secondo il quale "la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora". Nel senso che siamo d'accordo che quando è necessario pensare ad opere architettoniche di una certa rilevanza, quando si vuol pervenire al miglior esito possibile nello scegliere un progetto, la migliore strategia è quella di mettere a confronto soluzioni diverse. E, in effetti, da moltissimi anni il sistema ordinistico degli architetti appoggia questa causa, ci ha fatto convegni e congressi, si è fatto parte attiva nell'individuare modalità le più efficaci e corrette possibili affinché concorsi si facessero in Italia, addirittura sperimentando innovative piattaforme telematiche utili a ridurne tempi e costi. Qualche consultazione in più si sta facendo, cercando di colmare il gap che vede l'Italia fanalino di coda fra gli altri Paesi del mondo, cosa che però, senza nulla togliere all'impegno meritorio del sistema nel perseguire quella che è una buona pratica, non è esente da una serie di criticità.
Partiamo dal presupposto che ottenere la migliore qualità possibile per un'opera d'architettura non è affare che interessi solo la committenza o il progettista; l'architettura, la qualità dell'ambiente costruito costituiscono un interesse generale che travalica quelli particolari quindi quest'esercizio costituisce - anche in base ai principi costituzionali - un interesse pubblico e chi lo espleta, negli effetti pratici, compie un servizio di pubblico interesse.
Ciò, in prima battuta, porta il discorso sul piano economico e del lavoro: la retribuzione del lavoro, nei Paesi civili, è tutelata dalla Legge, nel nostro anche dalla Costituzione ed essa deve essere equa; i professionisti che prestano la loro opera nei concorsi, non solo compiono un'attività lavorativa ma questa è riferita ad un interesse generale della collettività, così come fanno altri lavoratori.
Dovremmo allora comprendere - caso unico - per quale ragione il costo di quest'attività, finalizzata al perseguimento di un interesse pubblico, che può essere in qualche caso anche riferibile ad un privato, debba essere posto a carico di una filiera produttiva nella quale un certo numero di operatori, a loro spese, producono l'oggetto del confronto e poi solo uno, il prescelto, ne sarà ricompensato. Si dice: si seleziona il progetto e non il progettista; sappiamo che non sempre è vero e, comunque, chi ha prodotto i termini del confronto, i progetti, ha contribuito al perseguimento dell'interesse generale (o del privato).
e volessimo fare un banale paragone con altri settori basterebbe pensare a qualcuno che desidera comperare un vestito su misura, lo fa realizzare ad una decina di sarti, poi ne sceglie e ne paga uno e tutti gli altri vengono buttati? non mi pare, vista in una logica di sistema, una pratica economicamente efficiente (darei dei numeri ma dovrei occupare ancora più spazio) e, soprattutto, scarica i costi di un vantaggio su coloro lo rendono possibile. Visto nel quadro complessivo della professione ciò si traduce, ogni anno, in un rilevantissimo travaso di denaro dal mondo del progetto al mondo della committenza e non credo che, alle condizioni economiche attuali, ciò sia sostenibile o opportuno.
Poi, tra le altre, ci sono le questioni afferenti alle modalità di effettuazione delle consultazioni. Il CNAPPC, va dato atto, si è impegnato molto nel fissare procedure le più trasparenti possibile, stilando appositi bandi tipo cui tutti possono ricorrere e, scrivevo prima, ha anche implementato una piattaforma telematica che semplifica molto il sistema. Poco o nulla può fare però se le commissioni giudicatrici vengono determinate da scelte improvvide o sono addirittura prive di componenti di opportuna competenza rispetto al tema concorsuale; abbiamo assistito per esempio (senza entrare nel merito di consultazioni ad personam o dagli esiti diffusamente riconosciuti come imbarazzanti) a concorsi d'architettura - privati - nella cui commissione giudicatrice non era presente nemmeno un architetto. Come dice una mia amica è come far giudicare l'assunzione di un primo violino alla Scala da una commissione in cui non c'è nemmeno un musicista. Nulla di illecito, sia ben chiaro; i concorsi indetti da privati non sono governati dal Codice Appalti quindi, allo stato, ciascuno può comportarsi come crede. Però, alla luce delle reiterate sollecitazioni da parte del sistema ordinistico a ricorrere ai concorsi anche per l'affidamento di opere private, averlo fatto senza che ci sia almeno la garanzia di regole certe e chiare, queste affidate alla buona volontà, sa un po' di ingenuità.
Tornando all'aforisma di Churchill come intervenire allora? Esprimo un'idea, assolutamente personale: se si vuole perseguire la migliore qualità attraverso il confronto ciò lo si può ottenere indicendo concorsi ad inviti e gli invitati, con il massimo della trasparenza, possono essere scelti sulla base dei curricula, anche integrandosi studi affermati e giovani professionisti come già oggi avviene. A ciascuno degli invitati dovrebbe essere garantito un compenso proporzionato all'opera svolta, anche funzione del gradimento del risultato da parte della commissione giudicatrice con, a monte, la garanzia assoluta che l'opera comunque verrà realizzata; perché anche questo oggi così non è, non si contano i concorsi fatti finiti poi in una bolla di sapone. Poi il ricorso alla procedura concorsuale, con la sua onerosità non più a carico della professione - che sarebbe l'obbiettivo minimo di sistema - dovrebbe essere da un lato reso obbligatorio per opere pubbliche di particolare rilevanza, dall'altro volontaristico o limitato ai casi d' interesse, anche per non far perdere di significato alla responsabilità della scelta. Un committente responsabile si deve assumere quest'onere, quello di scegliere o il miglior professionista o, se non è in grado di farlo, di accedere alla procedura concorsuale a sue spese perché suo, prima di tutti, è l'interesse.
Sono pensieri in libertà, sinteticamente resi e suscettibili, ovviamente, di moltissime declinazioni, osservazioni, critiche. Tra queste, facile è quella che i concorsi in tutto il mondo si fanno e nessuno si lamenta, vedi la Francia che in questo ha una grande tradizione… Bisogna forse inquadrare la questione nel contesto italiano; in esso non sono solo gli architetti che possono offrire progetti d'architettura e, anche se così fosse, il loro numero è tale da costituire un'anomalia mondiale: 160.000 su 60 milioni di abitanti; a ciò si aggiunga il mercato potenziale che è tra i più bassi d'Europa e quindi essi sostengono questi costi pur essendo tra i più penalizzati dal punto di vista economico nel loro lavoro.
Facile intuire che ai concorsi spesso possono partecipare solo gli studi più grandi nei quali operano una serie di tirocinanti con costo prossimo allo zero, senza parlare delle cosiddette archistar le quali possono agevolmente destinare una parte del loro ricco fatturato all'autofinanziamento. Credo ce ne possa essere abbastanza per interrogarsi - senza filtri ideologici - se non sia il caso da un lato di continuare gli sforzi per migliorare ed efficientare le procedure, dall'altro cominciare a porre dei paletti a tutela della sostenibilità economica di un sistema che è fatto da lavoratori, della conoscenza certo, e non da mecenati (i più non ricchi) ob torto collo.
A cura di Arch. Giuseppe Scannella
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