Idee di sostenibilità tra cemento e chilometri di autostrade
25/02/2015
Il termine sostenibile, la cui
definizione risale già al XVIII secolo, indica quel
progresso tecnologico e industriale, di una
nazione, compatibile con la difesa dell'ambiente e con una
equa distribuzione della ricchezza. Tale concetto, come
ben sappiamo, soprattutto nel corso dell'ultimo decennio, è andato
sempre più espandendosi, tanto da essere applicato non solo agli
organismi viventi ma anche ai loro ecosistemi che,
nel caso dell'uomo, abbracciano un insieme ampio che va
dall'architettura,
all'ingegneria, all'urbanistica,
alla sociologia, alle regole della
nutrizione, insomma a tutte quelle discipline che regolano
il vivere dell'essere umano sul pianeta.
Proprio con riferimento alla società odierna, tale termine indica quell'equilibrio per il soddisfacimento delle esigenze delle generazioni presenti "senza, però, compromettere la possibilità, delle future generazioni, di sopperire alle proprie". In particolare, nel suo impiego in ambito più ambientale, il termine si riferisce alla potenziale "longevità" di un sistema ad essere di supporto per la vita umana. Questa, però, è messa in relazione, per forza di cose, con l'influenza che l'attività antropica esercita sui sistemi stessi.
Proprio per quanto detto, il concetto di sostenibilità può essere, contemporaneamente, sia un andamento, uno stile di vita, che un modo nuovo di produrre risorse e, pertanto, la definizione di tale concetto ingloberebbe in se la totalità delle attività umane. In tal senso, e proprio per questi motivi, il concetto di sostenibilità si è talmente diffuso, diventando così un aggettivo ormai di uso comune, che spesso si rischia di perdere di vista il reale obiettivo che la moltitudine di idee elaborate nel nostro paese su tale argomento ha o dovrebbe avere.
La prima cosa che per secoli è stata sfruttata dall'essere umano, spesso in maniera del tutto sconsiderata, è il suolo, una risorsa non rinnovabile che l'uomo, con le sue attività, ha letteralmente "consumato": le abitazioni, le strade, le ferrovie, i porti, le industrie, e più in generale l'enorme quantità di infrastrutture pesanti, che ovunque possiamo vedere, occupano vaste porzioni di territorio trasformandole in modo pressoché irreversibile e permanente. Il ritmo di questi processi, tra l'altro, è cresciuto in modo proporzionale allo sviluppo delle economie dei singoli Stati: quello dell'aumento del consumo di suolo è si un fenomeno globale, ma diventa più problematico, e urgente da risolvere, in paesi di antica e intensa antropizzazione come l'Italia in cui per la scarsità di suolo edificabile l'avanzata dell'urbanizzazione ha da sempre conteso il terreno all'agricoltura, spingendo all'occupazione di aree coltivate e dedite alla produzione di risorse per il sostentamento della società, secondo delle regole, a volte a dir poco selvagge, di esproprio indennizzato.
Nel nostro Paese, infatti, nonostante lo spazio libero si sia quasi del tutto esaurito, è ancora fortissima la tendenza a cementificare disordinatamente il suolo libero rimasto: l'abusivismo edilizio, la crescita delle città, l'integrale urbanizzazione di lunghi tratti delle coste hanno segnato lo sviluppo territoriale dell'Italia contemporanea. "L'urbanizzazione si manifesta in forme sempre più complesse e invasive - si legge nel rapporto sulla Situazione del Paese dell'Istat - e ha conosciuto, negli ultimi decenni, un'accelerazione senza precedenti". Ma se prima si costruivano nuove porzioni di abitato per la rapida crescita demografica o per lo sviluppo industriale, in base ai grandi flussi migratori dalle campagne alle città, adesso i motivi sono cambiati: si costruisce, infatti, per portare soldi nelle casse dei Comuni, per la mancanza di una reale coscienza del RIUSO o del restauro dell'esistente, per la mancanza di vere agevolazioni economiche che possano consentire di manutenzionare il costruito storico e non. Anche strade e autostrade, che spesso si realizzano solo per rendere fabbricabili le aree attraversate, sono opere pensate senza un reale criterio urbanistico: una tendenza, questa, che ci allontana, dunque, dalle migliori esperienze europee, dove l'attività immobiliare si concentra spesso nella riqualificazione dei cosiddetti "brown fields", le ex aree industriali, e dove le idee della sostenibilità trovano riscontri in fatti concreti senza, invece, restare idee buttate lì, sulla carta, in quelli che sono i "patti dei Sindaci" dei vari Comuni.
In Italia è, dunque, in atto una vera e propria rapina della terra, terra che è destinata a produrre il cibo e, in un momento in cui ci si avvicina velocemente all'inizio del grande appuntamento internazionale dell'Expo di Milano, dedicato proprio al tema "Nutrire il pianeta", risulta paradossale come il paese che lo ospita sia uno tra i maggiori stati che toglie terra per la costruzione di chilometri di autostrade e di infrastrutture, spesso inutilizzate, costate milioni di euro, diventate ferite, non rimarginabili, di un territorio ridotto all'osso.
Come si può, allora, pensare di fare sostenibilità in Italia se il "fare" porta in altre direzioni, alla speculazione e al depredamento del territorio? Come si può parlare di "smart city" o di "città intelligenti e sostenibili" se l'Italia continua ad agire in tutt'altra direzione? Come ci nutriremo, in futuro, se tutt'oggi continuiamo a trattare la terra agricola come un vuoto a perdere e come un qualcosa che va eliminato per "fare posto" ad altro?
Il quadro che ne emerge è, dunque, disarmante: il Politecnico di Milano ha calcolato come dal 1980 al 2007 in Italia è andato perso, per sempre, un decimo del territorio agricolo nella sola Regione Lombardia. E a questi calcoli vanno aggiunte le nuove cementificazioni che il grande evento Expo 2015 ha prodotto, e sta producendo, direttamente e indirettamente, dato che, accanto alle opere principali, sono state previste tutta una serie di opere connesse che riguardano vaste porzioni di territorio. Sono quindici le grandi opere, alcune realizzate e altre ancora in fase di realizzazione, affinché l'area del sito sia collegata alla rete infrastrutturale esistente o affinché queste siano potenziate per adeguarsi ai volumi di affluenza previsti. Si parla, già, di "record di nuove autostrade" come la Brebemi (o Pedemontana), ovvero l'"autostrada che nessuno percorre": tre nuovissime corsie, per lo più uote, costruite per collegare in direttissima Brescia a Milano. Una ferita d'asfalto lunga 60 chilometri, che inizia e finisce in campagna, tagliando in due una vasta area che era rimasta ancora intatta. Insomma un'ulteriore e gravissima perdita se si pensa anche che ogni centimetro di suolo agricolo ha bisogno di 500 anni per rigenerarsi.
Tutto ciò a fronte, anche, della fatidica domanda sul cosa accadrà all'area dell'Expo a fine esposizione. Forse verrà realizzato un grande centro universitario, con residenze per gli studenti, dove confluiranno anche imprese Hi Tech, ma non è chiaro come tali opere potrebbero essere impiegate dopo la fine di questo evento: ci si augura solamente che le infrastrutture costruite per Expo non facciano la fine di quelle delle olimpiadi invernali di Torino che oggi sono praticamente abbandonate e inutilizzate a 9 anni dall'evento.
In tal senso, la molteplicità delle problematiche che vanno dagli aspetti più prettamente ambientali fino alla suddetta espansione del costruito sui territori rurali, può essere associata alla diversità di approcci derivante da quella rete di professionisti italiani e addetti ai lavori chiamati, così, a diventare gli unici capaci di calare la dimensione della sostenibilità all'interno delle loro discipline. Queste, intrecciandosi e interagendo tra di loro, potrebbero fornire una vera e propria guida ad un approccio metodologico integrato di pianificazione, a formare un network con a capo quella che potrebbe essere definita una onesta e moderna "urbanistica sostenibile".
Si tratterebbe, infatti, di considerare e analizzare, accanto al generale concetto di sostenibilità, le problematiche connesse alla loro praticabilità economica e alla loro applicabilità sul territorio, non solo sotto l'aspetto prettamente sociale, ma anche salvaguardando e difendendo le peculiari identità locali, con progetti e interventi che siano esecutivi, realmente fattibili e accettati, poi, dalla società. E mentre, almeno a livello teorico, è ormai chiaro cosa si intende per "architettura sostenibile" (seppur tra il dire e il fare, soprattutto nel nostro paese, si trovi un gap di non poco conto) non è altrettanto diffuso il concetto, più ampio, di progettazione urbana sostenibile che, paradossalmente, dovrebbe essere collocato ad un livello superiore rispetto a quel che riguarda la singola architettura. Infatti, se sono ormai note le metodologie di classificazione energetica del singolo edificio, ben diversa è la situazione se si considera un intero insediamento urbano: un insieme di edifici, anche con classi energetiche elevate, non costituisce, necessariamente, un complesso urbano o un abitato che possa essere definito sostenibile. Di fatto, l'obiettivo principale di un'urbanistica che possa essere definita tale, sarebbe quello di studiare la "capacità di carico" di un territorio, ovvero quanto un territorio è capace di "sopportare" l'aggiunta di uno o più elementi antropici senza stravolgere o distruggere il sistema naturale preesistente. E' chiaro che, in questi termini, rispetto ad una società passata, di tipo prettamente rurale, il carico antropico che oggi l'uomo ha imposto ai suoi territori ha superato il livello di guardia consentito: il rapporto uomo/territorio è ben lontano dall'essere sostenibile dato che l'impronta antropica supera, di quasi due volte, l'impronta ambientale, naturale, esistente.
E' in tale contesto, dunque, che i professionisti potrebbero collocarsi, proponendo ipotesi di progetto e soluzioni innovative per risolvere, al meglio, il delicato rapporto tra sistema artificiale e sistema naturale, evitando, per esempio, il continuo sfruttamento del suolo, di cui si è parlato prima, o facendo si che le città si propaghino nella natura, senza stravolgerne i delicati equilibri o facendo in modo che sia la natura a penetrare la città mediante, per esempio, la realizzazione di vere e proprie "vie verdi" o "corridoi naturali", ripensando i cardi e i decumani romani in chiave moderna e, per l'appunto, sostenibile. E se non è possibile pretendere di modificare l'atteggiamento delle persone, è però più probabile lavorare anche sull'informazione, sulla formazione e su proposte che possano influire, e non poco, sui loro stili di vita, su come esse consumano o su come esse si muovono, interferendo sulle dinamiche locali e sulle politiche nazionali e internazionali.
Come si può realizzare tutto ciò? Non certo con gli ormai superati piani urbanistici, che spesso restano per la loro troppa generalità solo su un livello teorico senza trovare poi un giusto e adeguato riscontro nella realtà. Sarebbe più opportuno, dunque, puntare a interventi che siano localizzati e definiti e che riguardino non solo l'urbanistica, ma un sistema di "governo del territorio" che sia multidisciplinare. E su questo c'è molto da lavorare dato che, soprattutto in Italia, manca la cultura dell'accordo, tra le istituzioni dello stato, e del lavoro di squadra ai più svariati livelli, dal locale al generale.
In conclusione, vogliamo nutrire il pianeta ma non sappiamo come prendercene cura; parliamo di sostenibilità ma cediamo al solito modus operandi che, per decenni, e tramite i più barbari criteri di cementificazione, ha portato a quel consumo di suolo di cui oggi paghiamo le conseguenze, in nome di un profitto e di un mercato che poco ha a che fare con il concetto di sviluppo sostenibile e molto ha a che fare con quello di inviluppo e regresso. Si parla spesso di "PIL della Terra" senza pensare che la biodiversità e gli ecosistemi naturali, di cui l'uomo fa totalmente parte senza spesso rendersene conto, hanno un valore inestimabile, che non può essere valutato in termini di denaro. E, a pochi mesi dall'Expo, il cui tema, come sappiamo tutti, è proprio quello della nutrizione, non solo dell'uomo ma, più metaforicamente, dell'intero pianeta, si potrebbe pensare ad una grande vittoria, per il nostro Paese e per tutta la classe dei professionisti italiani, se si desse un concreto esempio su come idea e piano d'azione non siano utopie o parole e applausi alla Carta di Milano, ma obiettivi assolutamente raggiungibili e realizzabili nel concreto.
© Riproduzione riservata
Proprio con riferimento alla società odierna, tale termine indica quell'equilibrio per il soddisfacimento delle esigenze delle generazioni presenti "senza, però, compromettere la possibilità, delle future generazioni, di sopperire alle proprie". In particolare, nel suo impiego in ambito più ambientale, il termine si riferisce alla potenziale "longevità" di un sistema ad essere di supporto per la vita umana. Questa, però, è messa in relazione, per forza di cose, con l'influenza che l'attività antropica esercita sui sistemi stessi.
Proprio per quanto detto, il concetto di sostenibilità può essere, contemporaneamente, sia un andamento, uno stile di vita, che un modo nuovo di produrre risorse e, pertanto, la definizione di tale concetto ingloberebbe in se la totalità delle attività umane. In tal senso, e proprio per questi motivi, il concetto di sostenibilità si è talmente diffuso, diventando così un aggettivo ormai di uso comune, che spesso si rischia di perdere di vista il reale obiettivo che la moltitudine di idee elaborate nel nostro paese su tale argomento ha o dovrebbe avere.
La prima cosa che per secoli è stata sfruttata dall'essere umano, spesso in maniera del tutto sconsiderata, è il suolo, una risorsa non rinnovabile che l'uomo, con le sue attività, ha letteralmente "consumato": le abitazioni, le strade, le ferrovie, i porti, le industrie, e più in generale l'enorme quantità di infrastrutture pesanti, che ovunque possiamo vedere, occupano vaste porzioni di territorio trasformandole in modo pressoché irreversibile e permanente. Il ritmo di questi processi, tra l'altro, è cresciuto in modo proporzionale allo sviluppo delle economie dei singoli Stati: quello dell'aumento del consumo di suolo è si un fenomeno globale, ma diventa più problematico, e urgente da risolvere, in paesi di antica e intensa antropizzazione come l'Italia in cui per la scarsità di suolo edificabile l'avanzata dell'urbanizzazione ha da sempre conteso il terreno all'agricoltura, spingendo all'occupazione di aree coltivate e dedite alla produzione di risorse per il sostentamento della società, secondo delle regole, a volte a dir poco selvagge, di esproprio indennizzato.
Nel nostro Paese, infatti, nonostante lo spazio libero si sia quasi del tutto esaurito, è ancora fortissima la tendenza a cementificare disordinatamente il suolo libero rimasto: l'abusivismo edilizio, la crescita delle città, l'integrale urbanizzazione di lunghi tratti delle coste hanno segnato lo sviluppo territoriale dell'Italia contemporanea. "L'urbanizzazione si manifesta in forme sempre più complesse e invasive - si legge nel rapporto sulla Situazione del Paese dell'Istat - e ha conosciuto, negli ultimi decenni, un'accelerazione senza precedenti". Ma se prima si costruivano nuove porzioni di abitato per la rapida crescita demografica o per lo sviluppo industriale, in base ai grandi flussi migratori dalle campagne alle città, adesso i motivi sono cambiati: si costruisce, infatti, per portare soldi nelle casse dei Comuni, per la mancanza di una reale coscienza del RIUSO o del restauro dell'esistente, per la mancanza di vere agevolazioni economiche che possano consentire di manutenzionare il costruito storico e non. Anche strade e autostrade, che spesso si realizzano solo per rendere fabbricabili le aree attraversate, sono opere pensate senza un reale criterio urbanistico: una tendenza, questa, che ci allontana, dunque, dalle migliori esperienze europee, dove l'attività immobiliare si concentra spesso nella riqualificazione dei cosiddetti "brown fields", le ex aree industriali, e dove le idee della sostenibilità trovano riscontri in fatti concreti senza, invece, restare idee buttate lì, sulla carta, in quelli che sono i "patti dei Sindaci" dei vari Comuni.
In Italia è, dunque, in atto una vera e propria rapina della terra, terra che è destinata a produrre il cibo e, in un momento in cui ci si avvicina velocemente all'inizio del grande appuntamento internazionale dell'Expo di Milano, dedicato proprio al tema "Nutrire il pianeta", risulta paradossale come il paese che lo ospita sia uno tra i maggiori stati che toglie terra per la costruzione di chilometri di autostrade e di infrastrutture, spesso inutilizzate, costate milioni di euro, diventate ferite, non rimarginabili, di un territorio ridotto all'osso.
Come si può, allora, pensare di fare sostenibilità in Italia se il "fare" porta in altre direzioni, alla speculazione e al depredamento del territorio? Come si può parlare di "smart city" o di "città intelligenti e sostenibili" se l'Italia continua ad agire in tutt'altra direzione? Come ci nutriremo, in futuro, se tutt'oggi continuiamo a trattare la terra agricola come un vuoto a perdere e come un qualcosa che va eliminato per "fare posto" ad altro?
Il quadro che ne emerge è, dunque, disarmante: il Politecnico di Milano ha calcolato come dal 1980 al 2007 in Italia è andato perso, per sempre, un decimo del territorio agricolo nella sola Regione Lombardia. E a questi calcoli vanno aggiunte le nuove cementificazioni che il grande evento Expo 2015 ha prodotto, e sta producendo, direttamente e indirettamente, dato che, accanto alle opere principali, sono state previste tutta una serie di opere connesse che riguardano vaste porzioni di territorio. Sono quindici le grandi opere, alcune realizzate e altre ancora in fase di realizzazione, affinché l'area del sito sia collegata alla rete infrastrutturale esistente o affinché queste siano potenziate per adeguarsi ai volumi di affluenza previsti. Si parla, già, di "record di nuove autostrade" come la Brebemi (o Pedemontana), ovvero l'"autostrada che nessuno percorre": tre nuovissime corsie, per lo più uote, costruite per collegare in direttissima Brescia a Milano. Una ferita d'asfalto lunga 60 chilometri, che inizia e finisce in campagna, tagliando in due una vasta area che era rimasta ancora intatta. Insomma un'ulteriore e gravissima perdita se si pensa anche che ogni centimetro di suolo agricolo ha bisogno di 500 anni per rigenerarsi.
Tutto ciò a fronte, anche, della fatidica domanda sul cosa accadrà all'area dell'Expo a fine esposizione. Forse verrà realizzato un grande centro universitario, con residenze per gli studenti, dove confluiranno anche imprese Hi Tech, ma non è chiaro come tali opere potrebbero essere impiegate dopo la fine di questo evento: ci si augura solamente che le infrastrutture costruite per Expo non facciano la fine di quelle delle olimpiadi invernali di Torino che oggi sono praticamente abbandonate e inutilizzate a 9 anni dall'evento.
In tal senso, la molteplicità delle problematiche che vanno dagli aspetti più prettamente ambientali fino alla suddetta espansione del costruito sui territori rurali, può essere associata alla diversità di approcci derivante da quella rete di professionisti italiani e addetti ai lavori chiamati, così, a diventare gli unici capaci di calare la dimensione della sostenibilità all'interno delle loro discipline. Queste, intrecciandosi e interagendo tra di loro, potrebbero fornire una vera e propria guida ad un approccio metodologico integrato di pianificazione, a formare un network con a capo quella che potrebbe essere definita una onesta e moderna "urbanistica sostenibile".
Si tratterebbe, infatti, di considerare e analizzare, accanto al generale concetto di sostenibilità, le problematiche connesse alla loro praticabilità economica e alla loro applicabilità sul territorio, non solo sotto l'aspetto prettamente sociale, ma anche salvaguardando e difendendo le peculiari identità locali, con progetti e interventi che siano esecutivi, realmente fattibili e accettati, poi, dalla società. E mentre, almeno a livello teorico, è ormai chiaro cosa si intende per "architettura sostenibile" (seppur tra il dire e il fare, soprattutto nel nostro paese, si trovi un gap di non poco conto) non è altrettanto diffuso il concetto, più ampio, di progettazione urbana sostenibile che, paradossalmente, dovrebbe essere collocato ad un livello superiore rispetto a quel che riguarda la singola architettura. Infatti, se sono ormai note le metodologie di classificazione energetica del singolo edificio, ben diversa è la situazione se si considera un intero insediamento urbano: un insieme di edifici, anche con classi energetiche elevate, non costituisce, necessariamente, un complesso urbano o un abitato che possa essere definito sostenibile. Di fatto, l'obiettivo principale di un'urbanistica che possa essere definita tale, sarebbe quello di studiare la "capacità di carico" di un territorio, ovvero quanto un territorio è capace di "sopportare" l'aggiunta di uno o più elementi antropici senza stravolgere o distruggere il sistema naturale preesistente. E' chiaro che, in questi termini, rispetto ad una società passata, di tipo prettamente rurale, il carico antropico che oggi l'uomo ha imposto ai suoi territori ha superato il livello di guardia consentito: il rapporto uomo/territorio è ben lontano dall'essere sostenibile dato che l'impronta antropica supera, di quasi due volte, l'impronta ambientale, naturale, esistente.
E' in tale contesto, dunque, che i professionisti potrebbero collocarsi, proponendo ipotesi di progetto e soluzioni innovative per risolvere, al meglio, il delicato rapporto tra sistema artificiale e sistema naturale, evitando, per esempio, il continuo sfruttamento del suolo, di cui si è parlato prima, o facendo si che le città si propaghino nella natura, senza stravolgerne i delicati equilibri o facendo in modo che sia la natura a penetrare la città mediante, per esempio, la realizzazione di vere e proprie "vie verdi" o "corridoi naturali", ripensando i cardi e i decumani romani in chiave moderna e, per l'appunto, sostenibile. E se non è possibile pretendere di modificare l'atteggiamento delle persone, è però più probabile lavorare anche sull'informazione, sulla formazione e su proposte che possano influire, e non poco, sui loro stili di vita, su come esse consumano o su come esse si muovono, interferendo sulle dinamiche locali e sulle politiche nazionali e internazionali.
Come si può realizzare tutto ciò? Non certo con gli ormai superati piani urbanistici, che spesso restano per la loro troppa generalità solo su un livello teorico senza trovare poi un giusto e adeguato riscontro nella realtà. Sarebbe più opportuno, dunque, puntare a interventi che siano localizzati e definiti e che riguardino non solo l'urbanistica, ma un sistema di "governo del territorio" che sia multidisciplinare. E su questo c'è molto da lavorare dato che, soprattutto in Italia, manca la cultura dell'accordo, tra le istituzioni dello stato, e del lavoro di squadra ai più svariati livelli, dal locale al generale.
In conclusione, vogliamo nutrire il pianeta ma non sappiamo come prendercene cura; parliamo di sostenibilità ma cediamo al solito modus operandi che, per decenni, e tramite i più barbari criteri di cementificazione, ha portato a quel consumo di suolo di cui oggi paghiamo le conseguenze, in nome di un profitto e di un mercato che poco ha a che fare con il concetto di sviluppo sostenibile e molto ha a che fare con quello di inviluppo e regresso. Si parla spesso di "PIL della Terra" senza pensare che la biodiversità e gli ecosistemi naturali, di cui l'uomo fa totalmente parte senza spesso rendersene conto, hanno un valore inestimabile, che non può essere valutato in termini di denaro. E, a pochi mesi dall'Expo, il cui tema, come sappiamo tutti, è proprio quello della nutrizione, non solo dell'uomo ma, più metaforicamente, dell'intero pianeta, si potrebbe pensare ad una grande vittoria, per il nostro Paese e per tutta la classe dei professionisti italiani, se si desse un concreto esempio su come idea e piano d'azione non siano utopie o parole e applausi alla Carta di Milano, ma obiettivi assolutamente raggiungibili e realizzabili nel concreto.
A cura di arch. Valeria Fazzino
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