Informativa antimafia, rating di legalità e aziendale, white list nella prevenzione delle infiltrazioni criminali nei contratti pubblici - I parte
27/09/2016
Se si guarda alla più recente legislazione volta a prevenire le infiltrazioni mafiose nei contratti pubblici non si può non rilevare il fiorire di strumenti volti ad affiancare all'attività repressiva quella di tipo preventivo che va dal livello informativo, a quello interdetti o, sino a spingersi, più recentemente, a misure che operano prevalentemente sul piano reputazionale.
Un'analisi d'insieme di tanti istituti, la documentazione antimafia, i rating di legalità, le white list ed il nuovo istituto, recentemente introdotto dal codice dei contratti pubblici (art. 83 del d.lgs. n. 50 del 2016), del rating aziendale, è preordinata a rilevarne non solo la coerenza interna, ma sopratutto quella con i principi generali dell'ordinamento interno ed europeo.
Ed infatti, se appare evidente che la crescente serie di strumenti predisposti dal legislatore vada ricondotta all'interno dei "rimedi" che l'ordinamento ha apprestato nel tentativo di incoraggiare le imprese a porre in essere comportamenti virtuosi arginando così i fenomeni corruttivi e le infiltrazioni mafiose purtroppo endemici nella società italiana , occorre chiedersi quanto tali strumenti possano incidere sulla complessiva 'giustizia del sistema', rischiando di espellere dal mercato imprenditori che pagano due volte la difficoltà di operare in aree economiche a forte condizionamento dei poteri criminali.
Si pensi, tra tutti, al caso della estensione degli effetti interdittivo-decadenziali delle misure di prevenzione che conduce al c.d. "ergastolo imprenditoriale".
La lettura sistematica delle misure volte alla prevenzione dell'ingerenza della criminalità organizzata negli appalti pubblici più lucrosi e nell'economia in generale, è bene chiarirlo fin da adesso, può quindi consentire di rilevarne l'inestricabile connessione, ma anche gli effetti applicativi e le eventuali antinomie.
Negli ultimi anni il legislatore nazionale si è impegnato nel predisporre delle contromisure e delle regole da applicare per restituire una dimensione di legalità al mercato in generale ed, in particolare, a quello afferente l'esecuzione di opere e servizi pubblici.
Dopo le prime frammentarie e controverse misure, che puntavano esclusivamente sulla repressione, il legislatore atteggiandosi ad educatore, ed interpretando così il proprio ruolo secondo la visione platonica, ha tentato di guidare cittadini ed imprese verso condotte corrette . Da qui la scelta di incoraggiare, come nel caso delle imprese, o imporre, come nel caso dei funzionari pubblici comportamenti etici, analiticamente descritti in codici, protocolli di legalità o modelli di organizzazione,. In tal guisa si è cercato di innescare un cambiamento culturale capace di scardinare alla base una concezione utilitaristica della cosa pubblica sempre più piegata al profitto individuale e dimentica del bene comune.
La rappresentata finalità appare opportuna, anche se ha assunto in taluni casi finalità addirittura utopistiche se preordinate al tentativo di coniugare integralmente etica ed affari.
Ed inoltre, le descritte misure per assumere effettività necessitano di un rilevante tempo di sedimentazione che consenta loro di permeare la membrana che avvolge la società moderna ed acquisire così effettività, abbandonando la mera rilevanza formale.
Come premesso, gli strumenti predisposti nel tentativo di scongiurare fenomeni di infiltrazione mafiosa e, più in generale, di scoraggiare condotte criminose, appaiono, vista la matrice unica che li lega, inscindibilmente connessi. L'analisi della disciplina della documentazione antimafia, sopratutto nella interpretazione che ne offre la giurisprudenza, del rating di legalità e delle white list non può, quindi, prescindere dal riferimento anche ad altre misure quali ad esempio: la documentazione antimafia, i protocolli di legalità ed i compliance programs e, da ultimo, le norme sul rating aziendale introdotte dal controverso codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016) dall'art. 83, comma 10.
La norma da ultimo richiamata dispone, infatti, l'istituzione presso l'ANAC del sistema del rating d'impresa e delle relative penalità e premialità. Sulla scorta delle nuove funzioni conferite, l'Autorità provvede al rilascio della certificazione alle imprese ai soli fini della qualificazione, rilevando tale tipologia di rating, pertanto, nell'attribuzione di punteggi nella fattispecie nelle quali trova applicazione il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
La documentazione antimafia: disciplina legislativa ed inquadramento giurisprudenziale
La disciplina della informazione antimafia, sancita dall'art. 84, terzo comma del d.lgs. 159 del 2011 e s.m.i., stabilisce che il controverso istituto consista "nell'attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate", e ciò sulla scorta di una serie di tassative ipotesi individuate al successivo quarto comma, sia - in via residuale - in base a "concreti elementi da cui risulti che l'attività d'impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata" (sesto comma) ed "il Prefetto competente estende gli accertamenti pure ai soggetti che risultano poter determinare in qualsiasi modo le scelte o gli indirizzi dell'impresa" (art. 91, quinto comma).
La documentazione antimafia assume, secondo la più recente dottrina, il ruolo di "principale, ma non esclusivo, strumento di prevenzione amministrativa nel contrasto alla criminalità organizzata, che si accompagna, con la medesima ratio, agli strumenti di prevenzione giurisdizionale" di guisa che, se "la prevenzione amministrativa è certamente il punto più avanzato di tutela, esigendo la ricorrenza di elementi di minor stringenza rispetto a quelli necessari per l'adozione di misure giurisdizionali", non se ne può revocare in dubbio la costituzionalità nell'ambito del complesso di reazioni predisposte dall'ordinamento per fronteggiare la criminalità organizzata. Tuttavia, nonostante la speciale pervasività e pericolosità sociale riconosciuti al fenomeno mafioso giustifichino il carattere preventivo/repressivo di provvedimenti di limitazione e contenimento della libertà di iniziativa economica, non può eludersi la "delicata questione di contemperamento con altri valori costituzionalmente rilevanti, dal principio di legalità, che vieta la previsione di poteri puramente rimessi all'arbitrio della pubblica amministrazione, ai principi della presunzione di innocenza e della libertà d'iniziativa economica privata".
Tale orientamento ermeneutico risulta suffragato da ampi ed articolati arresti giurisprudenziali che hanno delineato con nitore l'alveo entro il quale può svolgersi l'attività di accertamento affidata all'amministrazione degli Interni ed alla quale si deve un imponente impegno nel ricondurre una disciplina lacunosa, stratificata e per alcuni versi ricondotta a compatibilità con i principi fondamentali dell'ordinamento ed i cui moniti sono peraltro stati recepiti nel c.d. codice antimafia, entrato in vigore in termini ampiamente differiti, e nelle sue repentine modifiche.
L'informativa antimafia prescinde, in tal guisa, dall'accertamento della rilevanza penale dei fatti, non occorrendo neppure che il pericolo di condizionamento delle scelte dell'impresa sia concretamente provato, in quanto la finalità perseguita si concretizza nella massima anticipazione dell'azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia e di sicurezza, rispetto alla quale assumono rilievo fatti e vicende solo "sintomatici ed indiziari".
Sicché, ai fini dell'eventuale emissione di un'informativa antimafia, "il complesso degli elementi sintomatici ed indiziari che emergano nella fase istruttoria che precede l'adozione del provvedimento debbono, quantomeno, configurarsi idonei, nella loro emergenza ed oggettiva potenzialità, ad indurre con efficienza casuale e con carattere di attualità la situazione di condizionamento da parte della criminalità organizzata dell'impresa sottoposta a monitoraggio" .
Al Prefetto, infatti, è riconosciuto il potere di precludere al privato qualsiasi negoziazione con gli apparati pubblici ed a bloccarne l'esecuzione - se i rapporti sono già in corso - al ricorrere di un quadro costituito solo da presunzioni e indizi, che in ogni caso non possono essere considerati singolarmente o sconfinare in meri sospetti, ma devono assumere il carattere dell'attualità, congruità e concretezza, di guisa che l'attendibilità dell'interferenza va ricondotta ad una serie di circostanze ed elementi indiziari che qualifichino, su un piano di attualità ed effettività, una immanente situazione di condizionamento e di contiguità con interessi malavitosi.
Ne discende che se decolora progressivamente la mera rilevanza del vincolo parentale, le avvisaglie di possibili relazioni illecite che concorrono a formare il quadro indiziario devono assumere significato univoco alla luce dell'esperienza comune e non vengono meno all'emanazione dell'informativa antimafia interdittiva, sicché tracima nell'illegittimità quel giudizio probabilistico che, nel presumere un'ingerenza delle organizzazioni mafiose negli affari di un determinato soggetto, basi le sue deduzioni solo su alcuni fatti e vicende tralasciandone altre.
Deve, pertanto, ritenersi inattendibile ed illogica l'informativa antimafia che precluda ogni relazione con l'amministrazione all'imprenditore imparentato con esponenti del crimine organizzato, sebbene dall'istruttoria non risultino ulteriori sintomi di condizionamenti mafiosi.
D'altronde, ammettere un limite alla libera iniziativa economica privata, agganciando le proprie convinzioni esclusivamente al dato anagrafico senza alcun supporto in ordine alla dimostrazione di frequentazioni o comunanza di interessi con ambienti malavitosi, significherebbe acconsentire ad un sistema nel quale gli errori di un padre devono essere scontati automaticamente anche dal figlio. Nel quale chi vive, senza colpa, un legame familiare con un pregiudicato per fatti di mafia, si ritrova nell'impossibilità di poter svolgere attività lecite costituzionalmente tutelate.
In queste ipotesi, cosi come all'emanazione di provvedimenti arbitrari, illogici o incoerenti perché mere congetture non riscontrabili nella realtà, è possibile ottenere tutela chiedendo in sede giurisdizionale la censura dell'illegittimità dell'informativa emessa in carenza di presupposti indefettibili.
Sebbene il pericolo dell'infiltrazione mafiosa non possa ritenersi immaginario, ma fondato su elementi presuntivi e indiziari concretamente individuati, la relativa valutazione è rimessa alla lata discrezionalità del Prefetto, sindacabile in sede di legittimità solo sotto il profilo della illogicità, incoerenza o inattendibilità. Tuttavia, la valutazione discrezionale, per non sconfinare in mero arbitrio, può dirsi ragionevole e attendibile se sorretta almeno da presunzioni semplici, ovvero da una pluralità di "indizi seri, precisi e concordanti", oggettivamente riscontrabili, che secondo l'esperienza comune assumono un significato univoco.
Anche di recente, si è sottolineata l'importanza che, seppure in ragione della speciale pervasività e pericolosità sociale riconosciuti al fenomeno mafioso sia giustificato il carattere preventivo/repressivo di provvedimenti di limitazione e contenimento della libertà di iniziativa economica, la deroga non può spingersi tuttavia fino al punto da giustificare l'emanazione di informative antimafia interdittive basate su un "semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, pena, altrimenti lo stravolgimento dei principi di legalità e di certezza del diritto del nostro ordinamento democratico". Alla stregua di quanto sin qui sinteticamente richiamato, la giurisprudenza indica quindi nella 'attualità' 'obiettiva congruità' e 'concretezza' i caratteri che debbono manifestare gli elementi assunti dai provvedimenti interdittivi come base per giustificare la loro adozione da parte dell'autorità prefettizia competente, in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa.
Si deve aggiungere che gli accertamenti preventivi sulla non permeabilità dell'impresa alla malavita organizzata devono essere effettuati in modo particolarmente rigoroso nei casi in cui, come nella fattispecie, è richiesta l'erogazione di contributi pubblici.
La valutazione discrezionale posta a base dell'informativa interdittiva antimafia, in tal guisa, pur non dovendo provare puntualmente l'intervenuta infiltrazione, deve però sufficientemente dimostrare la sussistenza di elementi concreti da cui desumere il tentativo di ingerenza. In tal senso anche di recente, si è sottolineata l'importanza che, "seppure in ragione della speciale pervasività e pericolosità sociale riconosciuti al fenomeno mafioso sia giustificato il carattere preventivo/repressivo di provvedimenti di limitazione e contenimento della libertà di iniziativa economica, la deroga non può spingersi fino al punto da giustificare provvedimenti interdittivi basati su un semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, pena, altrimenti, lo stravolgimento dei principi di legalità e di certezza del diritto del nostro ordinamento democratico. Pertanto, la giurisprudenza indica nella "attualità", "obiettiva congruità" e "concretezza" i caratteri che debbono manifestare gli elementi assunti dai provvedimenti interdittivi come base per giustificare la loro adozione da parte dell'autorità prefettizia competente, in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa" .
Il recente contributo interpretativo del C.G.A. sull'obbligo di motivazione dei provvedimenti interdittivi.
Nella più recente evoluzione la giurisprudenza amministrativa, superando talune incertezze che hanno penalizzato l'univoca applicazione di un così delicato istituto, ed ancorandosi a quanto statuito in termini più avanzati dal Consiglio di Stato in termini di 'diritto alla buona amministrazione' (art. 41 Carta dei diritti fondamentali UE), ha ritenuto di indicare nell'emanazione della documentazione antimafia di più puntuali riferimenti al principio di legalità in una materia nella quale l'esercizio della discrezionalità, seppur ampio, non può tracimare nell'indeterminatezza, o peggio, nell'arbitrio.
In tal senso sembra opportuno richiamare quanto statuito, da ultimo, dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana che, sulla scorta di una puntuale ricostruzione dell'invero disorganica e frammentaria disciplina della materia, è approdato alla delimitazione obiettiva e ad una definizione rigorosa della fattispecie indicata come "tentativo di infiltrazione mafiosa" quale nozione tecnica di tale fattispecie e giungendo così ad annullare i provvedimenti prefettizi e le consequenziali determinazioni delle amministrazioni appaltanti.
Può essere affermato, al riguardo, che il c.d. tentativo di infiltrazione mafiosa si concreta e si risolve nel tentativo, da parte di un c.d. "soggetto mafioso" - o di un soggetto "presunto mafioso" (in ragione di talune condanne e/o "pendenze" giudiziarie specificamente indicate dalla normativa di settore), o anche di un soggetto "presunto mafioso per contiguità" (in ragione della deliberata scelta di convivere con un soggetto mafioso o presunto tale) - di condizionare le scelte di una società o di un'impresa.
A questo riguardo le richiamate pronunce precisano che con riferimento all'elemento soggettivo, occorre che l'attività sia diretta in modo non equivoco al raggiungimento dello scopo delineato.
E così, "la direzione della volontà dei soggetti sottoposti a controllo può essere induttivamente desunta dalla rilevazione di taluni fra gli indici sintomatici descritti dalla normativa di settore, quali la modifica degli assetti delle partecipazioni azionarie o delle quote sociali in vista della richiesta della certificazione antimafia; ovvero da elementi di fatto che - secondo il giudizio tecnico dell'Autorità - appaiono comunque sintomatici come (cfr. art.93 del codice antimafia):
- la costante o periodica presenza in azienda o nelle assemblee o nei consigli di amministrazione o nelle riunioni decisorie di (e fra) soggetti mafiosi o presunti tali;
- l'inspiegabile e/o ingiustificabile presenza nei cantieri dell'impresa richiedente la certificazione di soggetti di tal genere o di automezzi e mezzi meccanici a loro riconducibili. Quanto all'"elemento obiettivo", occorre - perché la fattispecie si perfezioni - che l'azione volta a condizionare le scelte imprenditoriali si presenti idonea al predetto fine".
Per quanto concerne, invece, la peculiare categoria dei c.d. soggetti "mandanti", che svolgono il tentativo di infiltrazione (l'azione diretta in modo non equivoco a produrre l'evento pericoloso), "le lettere ‘a' e ‘b' dell'art.10, comma 7, del DPR 3 giugno 1998 n.252 (e successivamente l'art. 84, comma 4, del codice antimafia) indicano i fondamentali criteri obiettivi per definire "mafioso" o "presunto mafioso" (per contiguità obiettiva della condotta) un determinato soggetto(o "mafiosa", o presunta tale, una famiglia o un c.d. "clan"), ai fini dell'applicazione dell'interdittiva antimafia'.
In tal senso appare condivisibile lo sforzo del supremo giudice amministrativo siciliano che, volendo ancorare la disciplina in esame ai principi fondamentali dell'ordinamento, ed, in particolare, a quello di legalità (più volte richiamato sia dalla Corte costituzionale che dai giudici remittenti proprio in tema di misure di prevenzione) ed a quello di certezza del diritto, giunge alla conclusione che 'per essere considerato mafioso:
- non è (e non può essere) sufficiente aver subìto - con l'accusa di cui all'art. 416 bis del codice penale - un procedimento penale poi conclusosi con un proscioglimento o con una assoluzione; o un "procedimento di prevenzione antimafia" conclusosi - magari svariati anni prima - con formula liberatoria, o avere subìto una "misura di prevenzione" annullata per difetto dei presupposti applicativi; o essere stato ‘illo tempore' condannato per associazione di stampo mafioso (o per concorso esterno in associazione mafiosa) pur avendo ormai scontato la pena ed ottenuto la riabilitazione;
- né, evidentemente a maggior ragione, è sufficiente far parte (o intrattenere rapporti di amicizia con un membro) di una famiglia che annoveri fra i suoi componenti uno o più soggetti che abbiano subìto i predetti procedimenti con gli esiti assolutori o liberatori sopra indicati".
L'arresto giurisprudenziale, superando in tal modo il dato puramente formale proprio nella delineata prospettiva di ancoraggio dell'interpretazione in materia di principi fondamentali richiamati, ritiene a questo proposito che "per considerare "mafiosa" una intera famiglia (etichettandola come "clan mafioso") non è sufficiente che di essa faccia parte anagraficamente un soggetto mafioso (o presunto tale per le irrilevanti ragioni sopra indicate), non essendo giuridicamente (e razionalmente) sostenibile - come già affermato dalla giurisprudenza maggioritaria - che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale (ed un elemento prognosticamente rilevante)".
Laddove non fosse fondato tale assunto, infatti, e si dovesse riconoscere prevalenza ad una nozione meramente sociologica (piuttosto che ad una tecnicamente giuridica) del fenomeno associativo mafioso, "si finirebbe per giungere ad una estensione extra ordinem (incontrollata ed incontrollabile) del concetto di "pericolosità sociale" che potrebbe innescare meccanismi abnormi e perversi dei quali potrebbero finire per beneficiare, paradossalmente, gli stessi gruppi criminali. Ove fosse possibile qualificare "mafioso" un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall'esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria (ciò che la Corte Costituzionale ritiene contrario a fondamentali principii costituzionali, come espressamente affermato nella sentenza n.177 del 1980, ma - per più di sessant'anni - fin dalla sentenza n.2 del 1956), si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l'inquisizione medievale (che, com'è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi' e non già di soggetti ‘delinquenti'; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti)".
Sotto tale profilo, laddove per attribuire ad un soggetto la qualifica di "mafioso" "fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l'ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio' della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena".
La prospettazione dei giudici siciliani si incunea così nella precedente giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha progressivamente ridotto la rilevanza del mero rapporto di parentela o affinità, sino ad ancorarla a profili oggettivi di concreta contiguità, i soli che possono giustificare l'irrogazione di misure interdittive così gravi come quelle sancite dalla normativa in materia antimafia.
A dire del supremo organo di giustizia amministrativa tale deriva interpretativa comporterebbe l'instaurazione "di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand'anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Risultano accolte così le perplessità e le censure articolate da parte della dottrina su un'interpretazione troppo estesa dei limiti della discrezionalità affidata alle Prefetture.
Soluzione questa, che appare collidere con i principi fondamentali in precedenza richiamati e dei quali è ineludibile l'applicazione anche in una materia delicata come quella in esame.
Sulla scorta della ricostruzione effettuata il giudice d'appello ritiene, conseguentemente, che il presupposto per l'applicazione delle ‘misure di prevenzione' non possa essere in alcun modo l'avvenuta commissione di fatti di reato, che contraddirebbe in radice la più volte sottolineata funzione di prevenzione, oltre a renderla "ormai tardiva ed inutile", ma si sostanzia nella presenza di situazioni (soggettive od oggettive) sintomatiche, ossia "di situazioni che, secondo giudizi prognostici e valutazioni probabilistiche, favoriscono (e determinino le condizioni ideali per) la commissione di reati; e/o che rivelano la sussistenza dell'oggettivo e percepibile pericolo che l'attivita' delittuosa possa essere iniziata o stia per iniziare".
Si addiviene, in tal guisa, alla conclusione che in materia la decisione dell'Amministrazione procedente, pur se ampiamente discrezionale, non può considerarsi affrancata "dall'obbligo di fornire motivazioni in merito alle ragioni della scelta. Essendo ben noto che quanto più un potere sia discrezionale tanto più è necessario corredarne l'esercizio con una motivazione che evidenzi come esso non sia debordato in mero arbitrio", ciò in quanto "nè il puro richiamo all'interesse pubblico appare sufficiente, laddove esso si risolva in una mera tautologia inidonea a spiegare le ragioni oggettive per le quali si ritiene che il pericolo di infiltrazione sussista non ostante non sia stato ravvisato dagli Organi di polizia preposti alla prevenzione e repressione dei reati".
Si tratta, quindi, di un applicazione del generale principio dell'obbligo generalizzato di motivazione, sancito dalla l. n. 241 e s.m.i.
E così, nel caso al vaglio del giudice amministrativo, si ritiene che il pericolo di condizionamento sia "frettolosamente desunto non già dalla accertata sussistenza di una relazione personale diretta fra il soggetto asseritamente mafioso e quello presuntivamente condizionato (o soggiogato), ma dalla sussistenza di un c.d. "rapporto di vicinanza" (dal contenuto oltremodo vago) con un parente", secondo uno dei noti indici rivelatori della contiguità "e ciò - si badi - senza alcun preciso riferimento ad alcuna percepibile condotta".
Il C.G.A. ha così ritenuto di elaborare puntualmente taluni canoni ermeneutici utili a delimitare l'albero entro cui può essere legittimamente esercitata la discrezionalità amministrativa in fattispecie così sensibili, precisando che il pericolo della sussistenza di infiltrazioni mafiose può essere desunto "anche dal fatto che soci e/o amministratori dell'impresa o della società soggetta a controllo "frequentano" soggetti mafiosi o presunti tali (rectius: che siano qualificabili, in senso tecnico, mafiosi o presunti mafiosi)", risultando, tuttavia, ancor più evidente che in tali casi le presunzioni dovranno essere gravi, precise e concordanti, in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale ricordato in precedenza.
Ne consegue che l'informativa antimafia interdittiva non possa legittimamente fondarsi sulla circostanza che 'un determinato soggetto è stato "notato" accompagnarsi con un soggetto malavitoso'. A questo riguardo, infatti, sarà compito dell'Amministrazione procedente individuare con puntualità e dovizia di particolari 'la ragione tecnica per la quale quest'ultimo va considerato mafioso (nel senso tecnico fin qui indicato; e non già nel significato sociologico e non giuridico che il termine spesso assume); le circostanze di tempo e di luogo in cui è stato identificato; e le ragioni logico-giuridiche per le quale si ritiene che si tratta non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di "frequentazione" effettivamente rilevante, ossia di relazione periodica, duratura e costante volta ad incidere sulle decisioni imprenditoriali".
In altre parole, non può ritenersi assistito da adeguata motivazione il provvedimento interdittivo che si limiti ad affermare "che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano "mafiosi", o ‘vicini' a soggetti mafiosi; o "vicini' o "affiliati' a "cosche mafiose" e/o a "famiglie mafiose". L'obbligo di congrua motivazione potrà quindi essere assicurato soltanto in presenza di elementi specifici e puntuali che consentano di comprendere:
- quale sia stato il "criterio tecnico" desumibile dall'art. art.10, comma 7, del DPR 3 giugno 1998 n.252 (e successivamente l'art. 84, comma 4, del codice antimafia), prescelto ed utilizzato per definire "mafioso" un soggetto, o "mafiosa" una famiglia;
- se effettivamente il soggetto qualificato come "mafioso" o "presunto mafioso" nel senso tecnico del termine (tale potendo essere considerato anche il "convivente" esclusivamente in ragione della sua scelta di contiguità abitativa) abbia posto in essere, in quanto ritenuto autore del tentativo di infiltrazione, atti idonei diretti a condizionare le scelte dell'impresa e in cosa essi si siano concretizzati;
- per quale (pur se presuntiva) ragione ed in che modo il "rapporto di parentela" o il "rapporto amicale" o la "relazione di convivenza" fra il "soggetto richiedente" la certificazione antimafia ed il presunto mafioso implichi un coinvolgimento concreto ed attuale del primo in attività economiche del secondo (o viceversa), o una comunanza attuale di interessi economico-patrimoniali o di interessi al compimento di attività di fiancheggiamento o comunque illecite;
- in cosa eventualmente consista, in concreto, il rapporto di "vicinanza" tra il parente del "soggetto richiedente" ed il "soggetto mafioso"; o il rapporto di "vicinanza" o di "affiliazione" fra il già menzionato "parente del soggetto richiedente" e la "cosca" o "famiglia mafiosa";
- in cosa eventualmente consista, in concreto, il "rapporto di vicinanza" o il c.d. "rapporto di affiliazione" fra eventuali soggetti che nella catena delle relazioni (o filiera dei favori e delle condotte) ed il mandante dell'attività di infiltrazione".
Si tratta, conclusivamente, di un importante approdo della giurisprudenza amministrativa essenziale alla corretta applicazione della normativa in materia di prevenzione delle infiltrazioni mafiose, che offre alle amministrazioni ed alle imprese utili riferimenti, con la conseguenza che, nel caso in cui il provvedimento prefettizio interdittivo non rispetti tali principi se ne deve ritenere pregiudicata la legittimità.
Le pronunce del C.G.A. da ultimo richiamate, quindi, non solo inquadrano puntualmente i presupposti per l'esercizio della discrezionalità amministrativa nell'emanazione della documentazione antimafia, scongiurando in termini ancor più nitidi quel rischio sempre presente di tracimazione nel "puro arbitrio amministrativo"' opportunamente additato dalla migliore dottrina , ma offrono canoni precisi anche per l'esercizio del sindacato giurisdizionale di legittimità, superando orientamenti controversi ed altalenanti che non hanno giovato alla univoca applicazione della disciplina consentendo di addivenire, in taluni casi, ad esiti paradossali i quali, pur astrattamente preordinati a garantire la legalità, sono risultati sicuramente pregiudizievoli per imprese spesso ben lontane da casi di infiltrazione.
L'auspicio è che il recentissimo arresto giurisprudenziale illustrato possa consolidarsi offrendo un più equilibrato bilanciamento tra le ineludibili esigenze di prevenzione delle infiltrazioni mafiose nella disciplina dei contratti e dei finanziamenti pubblici - ma anche nella più ampia applicazione che l'uso della documentazione antimafia sta avendo anche nel settore privato - e le esigenze di tutela del diritto all'iniziativa economica ed al lavoro.
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A cura di Gaetano Armao
Docente di diritto amministrativo europeo
Università di Palermo - Dipartimento di Scienze politiche e delle
relazioni internazionali
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