Libera Professione, cancellazione dall'albo se non si paga Ordine e Cassa di Previdenza
05/02/2015
Niente più avvocati "improvvisati" o iscritti all'albo
senza che esercitino la professione in modo effettivo,
continuativo, abituale e prevalente. È questa l'idea di base che
avrebbe ispirato la redazione dello schema di decreto del Ministro
della giustizia concernente "Regolamento recante disposizioni
per l'accertamento dell'esercizio della professione, a norma
dell'articolo 21, comma 1, della legge 31 dicembre 2012, n.
247".
L'art. 21 della legge n. 247/2012 (nuova disciplina per la professione forense) ha, infatti, previsto che la permanenza all'interno dell'albo sia subordinata all'esercizio della professione in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente, con modalità ed eccezioni da normare con regolamento che escluda tra i requisiti il reddito professionale.
Regolamento che è stato definito dal Ministero di Giustizia, il quale ha inviato al Consiglio Nazionale Forense uno schema di decreto che prevede che l'ordine professionale possa verificare ogni 3 anni la sussistenza dell'esercizio della professione in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente. In particolare, l'art. 2, comma 2 prevede che la professione forense è esercitata in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente solo se sussistono congiuntamente i seguenti requisiti:
Dei requisiti, quelli che saltano più all'occhio di chi oggi vive con difficoltà la libera professione sono senz'altro gli ultimi 4. Al fine di meglio chiarire le problematiche che potrebbero scaturire da questo regolamento (cha al momento è solo uno schema di dectreto) ho chiesto maggiori informazioni all'Avv. Davide Mura di siamoavvocati.it.
"In generale - ha affermato l'avv. Mura - posso dire che si tratta di un unicum nel panorama lavorativo e professionale italiano, perché codificherebbe un obbligo di successo professionale, quale condizione per esercitare la professione di avvocato. Non è più il mercato a determinare chi entra e chi esce dalla professione, ma è la legge, attraverso l'applicazione di parametri soggettivi, peraltro discutibili, a deciderlo".
Entrando nel dettaglio "L'art. 21 (della legge n. 247/2012) stabilisce che nell'accertamento dei requisiti sulla continuità professionale, non devono essere presi a riferimento parametri reddituali. Ma la verità è che lo schema di decreto sembra eludere il divieto, utilizzando parametri economici, velatamente reddituali. Altro non sono: la prova dell'adempimento del contributo all'Ordine, il pagamento dell'assicurazione professionale, il pagamento dei contributi previdenziali. Tutti obblighi già codificati da norme di legge per i quali esistono già conseguenze disciplinari e fiscali.
D'altro canto, la prova di aver trattato 5 affari annui, benché sia una prova talmente blanda da essere inefficace, comporta comunque un'indagine indiretta sul reddito dell'avvocato, sotto il profilo del volume d'affari, visto che il professionista, in caso di contestazione, dovrà comunque portare a sostegno della sussistenza del requisito, le fatture o i libri contabili.
Quanto poi all'adempimento degli oneri previdenziali, costituisce anche questo un criterio economico, indice della capacità reddituale dell'avvocato. Del resto è la stessa relazione di accompagnamento a definirla tale: "l'aver corrisposto i contributi annuali dovuti al consiglio dell'ordine e alla cassa di previdenza forense, dal momento che il versamento di tali contributi, per un verso, è essenziale per il funzionamento dei predetti enti e, per l'altro, è indice della presenza di un sia pur minimo volume di affari".
La criticità è evidente sotto due profili: il primo è relativo al funzionamento dell'ente. I contributi previdenziali non sono somme corrisposte per far funzionare un ente. Non sono né devono essere una fonte di finanziamento, ma servono al professionista per garantirsi il futuro previdenziale. Porre in essere una norma che tramuta i contributi previdenziali in un meccanismo attraverso il quale si vuole dare solidità finanziaria a un ente, non è certamente conforme alla ratio delle norme che sanciscono l'obbligo per tutti i lavoratori italiani (ivi compresi gli avvocati) di pagare i contributi previdenziali: obbligo finalizzato a garantire al lavoratore un trattamento pensionistico nella vecchiaia. Il secondo tradisce l'elusione del divieto di un'indagine reddituale sul professionista per accertare l'effettività, la continuità, la prevalenza dell'esercizio della professione.
La norma dunque presenta, a mio avviso, diversi profili di illegittimità, che se dovessero passare ed essere riversati sul decreto definitivo, comporterà inevitabilmente la fine professionali di molti avvocati con un volume d'affari basso, poiché non sarebbero in grado di dimostrare tutti i requisiti richiesti per esercitare la professione. Inoltre comporterebbe un massiccio ricorso alla tutela giudiziaria, sia in sede italiana, sia in sede europea.
Infine, la questione locali e utenza telefonica. Questa norma era stata eliminata dal progetto di legge, che addirittura - mi pare di ricordare - prevedeva in un primo tempo l'accertamento sulla dimensione dei locali in cui svolgere la professione. Ciò che sembra essere uscito dalla porta della legge, di fatto rientra dalla finestra del regolamento.
Quanto poi alle procedure di cancellazione e reiscrizione, esistono notevoli perplessità in ordine alla reiscrizione. Io la definisco una probatio diabolica, perché viene da chiedersi sinceramente come potrebbe mai un avvocato cancellato provare ai fini della reiscrizione: a) di aver trattato cinque affari all'anno, senza incorrere nel reato di esercizio abusivo della professione legale; b) acquisire i crediti formativi se non è avvocato (dove verrebbero registrati e a nome di chi?); c) pagare la quota annuale all'ordine di appartenenza se non è più iscritto; d) pagare i contributi previdenziali idem come sopra.
Questo decreto, conferma ancora una volta la mia convinzione che oggigiorno la professione di avvocato ha perso o sta perdendo, ovvero ancora rischia di perdere, la sua connotazione di professione libera e indipendente".
Sul problema riporto pure le dichiarazioni dell'avv. Cosimo D. Matteucci, presidente dell'associazione nazionale M.G.A. (Mobilitazione Generale degli Avvocati).
"Stanno utilizzando la previdenza forense per selezionare la categoria professionale sulla base del censo, sulla base di un criterio reddituale ed economico.
L'aspetto più amaro, e che deve farci riflettere, è la lontananza delle nostre Istituzioni, dalla Cassa Forense, al CNF, all'OUA, quando invece avrebbero dovuto esserci vicine, soprattutto in considerazione del periodo di gravissima crisi della categoria, del drastico calo dei redditi, del costante aumento della pressione fiscale e dei costi di esercizio della professione.
La ragione però c'è, ed è che le Istituzioni forensi e le oligarchie che le governano hanno visto in questa situazione e nell'inasprimento della normativa di settore, sia fiscale che previdenziale, l'imperdibile occasione di falciare il numero degli avvocati nella consapevolezza che solo pochi di loro sarebbero riusciti a superare gli sbarramenti progressivamente eretti, e quei pochi sarebbe stati i più abbienti e i più ammanicati.
Si sta compiendo quella selezione che con MGA stavamo denunciando da tempo, quella peggiore, quella sul reddito, perché, secondo loro, se non ne produci abbastanza, non puoi lavorare: ma vi rendete conto della gravità di ciò che sta accadendo?
Questo principio censuario non è pericoloso solo per noi avvocati, ma è pericoloso per tutti, perchè potrebbe essere adottato anche per tutti gli altri professionisti, per tutti gli altri lavoratori, così come in effetti sta già avvenendo.
La sua pericolosità è politica, la sua pericolosità è sociale ed è per questo che non deve passare, e noi... noi non lo faremo passare".
Ringrazio l'avv. Davide Mura e l'avv. Cosimo D. Matteucci per aver approfondito per noi i dettami di un provvedimento che pur riguardando solo la professione forense, potrebbe fare da vero e proprio apripista anche per tutte le altre libere professioni.
© Riproduzione riservata
L'art. 21 della legge n. 247/2012 (nuova disciplina per la professione forense) ha, infatti, previsto che la permanenza all'interno dell'albo sia subordinata all'esercizio della professione in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente, con modalità ed eccezioni da normare con regolamento che escluda tra i requisiti il reddito professionale.
Regolamento che è stato definito dal Ministero di Giustizia, il quale ha inviato al Consiglio Nazionale Forense uno schema di decreto che prevede che l'ordine professionale possa verificare ogni 3 anni la sussistenza dell'esercizio della professione in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente. In particolare, l'art. 2, comma 2 prevede che la professione forense è esercitata in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente solo se sussistono congiuntamente i seguenti requisiti:
- a) essere titolare di una partita IVA attiva;
- b) avere l'uso di locali e di almeno un'utenza telefonica destinati allo svolgimento dell'attività professionale, anche in associazione professionale, società professionale o in associazione di studio con altri colleghi;
- c) avere trattato almeno cinque affari per ciascun anno, anche se l'incarico professionale è stato conferito da altro professionista;
- d) essere titolare di un indirizzo di posta elettronica certificata, comunicato al consiglio dell'Ordine;
- e) avere assolto l'obbligo di aggiornamento professionale secondo le modalità e le condizioni stabilite dal Consiglio Nazionale Forense;
- f) avere in corso una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile derivante dall'esercizio della professione;
- g) avere corrisposto i contributi annuali dovuti al consiglio dell'ordine;
- h) avere corrisposto i contribuiti dovuti alla Cassa di Previdenza Forense.
Dei requisiti, quelli che saltano più all'occhio di chi oggi vive con difficoltà la libera professione sono senz'altro gli ultimi 4. Al fine di meglio chiarire le problematiche che potrebbero scaturire da questo regolamento (cha al momento è solo uno schema di dectreto) ho chiesto maggiori informazioni all'Avv. Davide Mura di siamoavvocati.it.
"In generale - ha affermato l'avv. Mura - posso dire che si tratta di un unicum nel panorama lavorativo e professionale italiano, perché codificherebbe un obbligo di successo professionale, quale condizione per esercitare la professione di avvocato. Non è più il mercato a determinare chi entra e chi esce dalla professione, ma è la legge, attraverso l'applicazione di parametri soggettivi, peraltro discutibili, a deciderlo".
Entrando nel dettaglio "L'art. 21 (della legge n. 247/2012) stabilisce che nell'accertamento dei requisiti sulla continuità professionale, non devono essere presi a riferimento parametri reddituali. Ma la verità è che lo schema di decreto sembra eludere il divieto, utilizzando parametri economici, velatamente reddituali. Altro non sono: la prova dell'adempimento del contributo all'Ordine, il pagamento dell'assicurazione professionale, il pagamento dei contributi previdenziali. Tutti obblighi già codificati da norme di legge per i quali esistono già conseguenze disciplinari e fiscali.
D'altro canto, la prova di aver trattato 5 affari annui, benché sia una prova talmente blanda da essere inefficace, comporta comunque un'indagine indiretta sul reddito dell'avvocato, sotto il profilo del volume d'affari, visto che il professionista, in caso di contestazione, dovrà comunque portare a sostegno della sussistenza del requisito, le fatture o i libri contabili.
Quanto poi all'adempimento degli oneri previdenziali, costituisce anche questo un criterio economico, indice della capacità reddituale dell'avvocato. Del resto è la stessa relazione di accompagnamento a definirla tale: "l'aver corrisposto i contributi annuali dovuti al consiglio dell'ordine e alla cassa di previdenza forense, dal momento che il versamento di tali contributi, per un verso, è essenziale per il funzionamento dei predetti enti e, per l'altro, è indice della presenza di un sia pur minimo volume di affari".
La criticità è evidente sotto due profili: il primo è relativo al funzionamento dell'ente. I contributi previdenziali non sono somme corrisposte per far funzionare un ente. Non sono né devono essere una fonte di finanziamento, ma servono al professionista per garantirsi il futuro previdenziale. Porre in essere una norma che tramuta i contributi previdenziali in un meccanismo attraverso il quale si vuole dare solidità finanziaria a un ente, non è certamente conforme alla ratio delle norme che sanciscono l'obbligo per tutti i lavoratori italiani (ivi compresi gli avvocati) di pagare i contributi previdenziali: obbligo finalizzato a garantire al lavoratore un trattamento pensionistico nella vecchiaia. Il secondo tradisce l'elusione del divieto di un'indagine reddituale sul professionista per accertare l'effettività, la continuità, la prevalenza dell'esercizio della professione.
La norma dunque presenta, a mio avviso, diversi profili di illegittimità, che se dovessero passare ed essere riversati sul decreto definitivo, comporterà inevitabilmente la fine professionali di molti avvocati con un volume d'affari basso, poiché non sarebbero in grado di dimostrare tutti i requisiti richiesti per esercitare la professione. Inoltre comporterebbe un massiccio ricorso alla tutela giudiziaria, sia in sede italiana, sia in sede europea.
Infine, la questione locali e utenza telefonica. Questa norma era stata eliminata dal progetto di legge, che addirittura - mi pare di ricordare - prevedeva in un primo tempo l'accertamento sulla dimensione dei locali in cui svolgere la professione. Ciò che sembra essere uscito dalla porta della legge, di fatto rientra dalla finestra del regolamento.
Quanto poi alle procedure di cancellazione e reiscrizione, esistono notevoli perplessità in ordine alla reiscrizione. Io la definisco una probatio diabolica, perché viene da chiedersi sinceramente come potrebbe mai un avvocato cancellato provare ai fini della reiscrizione: a) di aver trattato cinque affari all'anno, senza incorrere nel reato di esercizio abusivo della professione legale; b) acquisire i crediti formativi se non è avvocato (dove verrebbero registrati e a nome di chi?); c) pagare la quota annuale all'ordine di appartenenza se non è più iscritto; d) pagare i contributi previdenziali idem come sopra.
Questo decreto, conferma ancora una volta la mia convinzione che oggigiorno la professione di avvocato ha perso o sta perdendo, ovvero ancora rischia di perdere, la sua connotazione di professione libera e indipendente".
Sul problema riporto pure le dichiarazioni dell'avv. Cosimo D. Matteucci, presidente dell'associazione nazionale M.G.A. (Mobilitazione Generale degli Avvocati).
"Stanno utilizzando la previdenza forense per selezionare la categoria professionale sulla base del censo, sulla base di un criterio reddituale ed economico.
L'aspetto più amaro, e che deve farci riflettere, è la lontananza delle nostre Istituzioni, dalla Cassa Forense, al CNF, all'OUA, quando invece avrebbero dovuto esserci vicine, soprattutto in considerazione del periodo di gravissima crisi della categoria, del drastico calo dei redditi, del costante aumento della pressione fiscale e dei costi di esercizio della professione.
La ragione però c'è, ed è che le Istituzioni forensi e le oligarchie che le governano hanno visto in questa situazione e nell'inasprimento della normativa di settore, sia fiscale che previdenziale, l'imperdibile occasione di falciare il numero degli avvocati nella consapevolezza che solo pochi di loro sarebbero riusciti a superare gli sbarramenti progressivamente eretti, e quei pochi sarebbe stati i più abbienti e i più ammanicati.
Si sta compiendo quella selezione che con MGA stavamo denunciando da tempo, quella peggiore, quella sul reddito, perché, secondo loro, se non ne produci abbastanza, non puoi lavorare: ma vi rendete conto della gravità di ciò che sta accadendo?
Questo principio censuario non è pericoloso solo per noi avvocati, ma è pericoloso per tutti, perchè potrebbe essere adottato anche per tutti gli altri professionisti, per tutti gli altri lavoratori, così come in effetti sta già avvenendo.
La sua pericolosità è politica, la sua pericolosità è sociale ed è per questo che non deve passare, e noi... noi non lo faremo passare".
Ringrazio l'avv. Davide Mura e l'avv. Cosimo D. Matteucci per aver approfondito per noi i dettami di un provvedimento che pur riguardando solo la professione forense, potrebbe fare da vero e proprio apripista anche per tutte le altre libere professioni.
A cura di Gianluca
Oreto - @lucaoreto
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