Per il bene del nostro territorio

15/12/2014

Come sempre accade in questo strano Paese, si parla per giorni, mesi, sempre dello stesso tema, finché non se ne troverà un altro, più attraente, sul quale concentrare l'attenzione politica e mediatica. Come sempre accade in questo strano Paese, dopo ogni catastrofe, dopo ogni perdita ci si rimbocca le maniche giurando che quello che finora è accaduto non accadrà più. Da qualche mese un tema molto dibattuto è quello del dissesto idrogeologico.

Lo vado sentendo dai tempi dell'Università; da quando, alla fine degli anni '80, venne promulgata la famosa legge 18 maggio 1989, n. 183 "Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo", una legge all'epoca moderna che integrava, per la prima volta, i concetti di suolo, acqua e pianificazione, una rivoluzione culturale per l'Italia dei fiumi, delle fiumare, dei calanchi e delle formazioni strutturalmente complesse.

Quella legge arrivava dopo un periodo di gestazione politica durato 23 anni, più o meno lo stesso tempo intercorrente tra la catastrofe del Vajont del 1963 e la drammatica sequenza di eventi della Valtellina del 1987. In quei 23 anni, mentre i Governi si susseguivano e discutevano sull'opportunità, o meno, di promulgare una legge sulla difesa del suolo, decine di persone perdevano la vita e tutti i loro beni nelle catastrofi di Genova (1970), Val di Stava (1985), Valtellina (1987), solo per richiamare quelle più famose per le cronache e la storia.

E quando quella legge entrò in vigore, con l'istituzione delle Autorità di Bacino Nazionali, nessuno sapeva se avrebbe rappresentato davvero lo strumento normativo più adeguato per limitare morte e distruzione in un Paese geologicamente giovane, in cui tutte le pericolosità naturali erano presenti.
Si dovevano aspettare altri 9 anni, tra il fango e la disperazione della gente di Sarno e 15, per rendersi conto che forse quella legge, da sola, non era sufficiente per bloccare il degrado morale e l'incoscienza di professionisti mediocri e di politici miopi. Oltre alla legge occorreva una svolta culturale, decisa, che rimettesse in chiaro, una volta per tutte, che con i corsi d'acqua e con i versanti non si scherza. L'uomo può e deve progettare, è nella sua essenza proiettarsi nel futuro attraverso la materializzazione del suo pensiero; eppure la progettazione non è un semplice esercizio analitico: è una vera e propria sfida, giocata sul delicato equilibrio tra opera dell'uomo e ambiente naturale. E se l'ambiente cambia nel tempo, l'opera dell'uomo deve saperne anticipare le mosse per essere sempre affidabile e funzionale fino al termine della sua vita.

Ma la progettazione senza progettualità non può esistere e la progettualità è un processo culturale che trova nel tempo la sua ragion d'essere. Ed in questo Paese, ormai da troppi anni, manca la vera progettualità che è stata mortificata dalle logiche del mercato e del potere, piuttosto che valorizzata dal confronto costruttivo alla ricerca di un modello di sviluppo più adeguato.
Esistono i progetti, quelli importanti e ben fatti, basati su una conoscenza profonda del contesto naturale in cui si calano; i progetti redatti da professionisti competenti che prima di progettare hanno educato la propria progettualità con coraggio, impegno, competenza e continuità. Ma esistono anche tanti progetti scadenti; cumuli di tavole e calcoli prodotti nell'arco di qualche giorno per illudersi di aver agito per il bene di quel territorio o di quella comunità.
E invece questo tipo di progettualità non fa bene al nostro Paese; è esattamente la progettualità scadente che ha generato morte e disperazione in tanta gente che, ignara, ha creduto che ad ogni opera potesse essere associato il senso del benessere e dello sviluppo.

L'Italia ha bisogno di certezze e di una grande progettualità. Progettualità che vada oltre l'esercizio tecnico ma che individua l'orizzonte raggiungibile a costo di sacrifici sostenibili.
Il tema del dissesto idrogeologico solo in questo senso può diventare un'opportunità; solo in questo modo l'Unità di Missione pensata e realizzata dal Governo Renzi può rappresentare una garanzia per un territorio più sicuro a fronte di risorse economiche limitate ma oculatamente gestite.

Ma mentre i tecnici dell'Unità di Missione cercano strade e soluzioni operative per affrontare l'enorme mole di lavoro che si troveranno a gestire, nei piccoli studi tecnici di provincia, ma anche nelle megastrutture metropolitane, si producono progetti in serie, con tempi ristrettissimi e compensi spesso inesistenti; ciò porta inevitabilmente a produrre un parco progetti, troppo spesso di scarsa qualità, che non è frutto di una progettualità raffinata che parte dall'analisi dei fabbisogni del territorio, ma solo dell'ossessiva esigenza di acquisire finanziamenti e realizzare opere.

In questo le professioni, e quelle tecniche in particolare, stanno perdendo l'ennesima occasione per riacquistare una credibilità che è stata dilapidata nell'arco di un trentennio, da quando, cioè, da elite culturale di un Paese alla ricerca di un'identità forte diventava soggetto commerciale che, alla stregua di altri, cercava la propria sopravvivenza nella concorrenza e non nella credibilità.

I professionisti del nuovo millennio, probabilmente, non hanno colto fino in fondo il reale pericolo che sta correndo la loro credibilità rispetto ad un mercato che chiede maggiori performance a fronte di minori risorse investite. Ne è dimostrazione la guerra senza quartiere che quotidianamente si instaura tra i professionisti alla ricerca del cliente di turno che possa consentire di sbarcare il lunario.
Eppure in questa condizione non si è finiti per caso; è l'effetto di una crisi di identità che parte da molto lontano, da quando tutti pensavano di poter fare tutto, senza misurare effettivamente i propri limiti e prendere coscienza delle proprie incapacità.

Opere ciclopiche o fuori contesto pensate e progettate da tecnici "a mezzo servizio"; inconsapevolezza assoluta riguardo ai contesti naturali ed alle relative criticità in cui le opere stesse venivano calate. Queste sono solo alcune delle gravi ingenuità commesse dalle professioni tecniche negli ultimi trent'anni.

L'ultima, in ordine di tempo, quella commessa in sede di approvazione della bozza delle Norme Tecniche per le Costruzioni, quando gli unici rappresentanti dei Progettisti, ovvero i Consigli Nazionali che li rappresentano, non hanno agito come blocco unico ma come singoli elementi di un sistema ordinistico ormai scricchiolante e fuori tempo.
Le vecchie contrapposizioni culturali, più di principio che di merito ed ormai anche un po' ingrigite dal tempo, hanno avuto, ancora una volta, un effetto dilaniante all'interno delle professioni, ponendo su piani diversi geologi e ingegneri/architetti come se non fossero figli della stessa madre: la scienza.

Ecco, forse la vera ragione di questo profondo decadimento economico, culturale e morale dell'Italia è da ricercare nella mancanza di un confronto costruttivo, anche vivace ma corretto nei termini e nelle modalità, che aveva caratterizzato gli anni dello sviluppo e della crescita, che aveva dato la sensazione a ciascuno, insieme agli altri, di essere parte attiva di un processo.

Ormai ognuno pensa di poter fare bene da solo e questo è l'errore più grave che si possa commettere in un Paese che si definisce civile, democratico ed evoluto. Per fare bene, e per fare il bene della comunità, è necessario il contributo di tutti che, con la propria specificità, sanno rendere organico e completo un processo.

Il tempo a disposizione per fare bene è ormai ridottissimo e l'emergenza dissesto idrogeologico, quest'anno più che in quelli scorsi, non lascia grossi margini di manovra. Si abbandonino le posizioni preconcette e si operi, con coscienza, per il bene del nostro territorio.

di Pierfederico De Pari - Segretario Consiglio Nazionale Geologi


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