RAPPORTO DI LEGAMBIENTE
21/05/2008
Bisogna guardare al territorio spesso per capire come un Paese è
capace di immaginare il proprio futuro. Di come pensa di tenere
assieme identità e innovazione, tutela del proprio patrimonio
storico culturale e sviluppo economico. Un perfetto indicatore di
questo tipo, oltre che un tema troppo spesso dimenticato, sono le
cave. L’attività estrattiva è antica come la storia dell’uomo,
riguarda da vicino tanti settori “pesanti” dell’economia italiana –
come edilizia e infrastrutture -, incrocia alcuni marchi del made
in Italy nel Mondo, come la ceramica e i materiali pregiati.
>BR> Diventa dunque fondamentale capire la situazione dell’attività estrattiva in Italia, trovare numeri e capire le spinte che muovono il settore, fare il punto su politiche e competenze. Il Rapporto di Legambiente sulle cave è nato con questi obiettivi ed è stato costruito attraverso un questionario inviato alle Regioni, e incrociando i dati con studi e verifiche. Si occupa nello specifico dell’attività di cava e non di miniera e neanche dell’estrazione negli alvei fluviali in quanto vietata dalla maggior parte delle Autorità di Bacino fatta eccezione per specifiche esigenze idrauliche.
I numeri fotografati dal Rapporto sono impressionanti, le cave attive in Italia sono 5.725 mentre sono 7.774 quelle dismesse nelle Regioni in cui esiste un monitoraggio. Complessivamente si possono stimare in oltre 10mila quelle abbandonate se si considerano anche le 9 Regioni in cui non sono disponibili dati. Ancora più sorprendente è che la normativa nazionale di riferimento in materia sia ancora oggi un Regio Decreto del 1927. Un testo che esprime chiaramente un idea dell’attività estrattiva come settore industriale da sviluppare, e in cui sfruttare le risorse del suolo e sottosuolo al di fuori di qualsiasi considerazione territoriale, ambientale o paesaggistica.
A dettare le regole per l’attività estrattiva dovrebbero essere oggi le Regioni, a cui sono stati trasferiti i poteri in materia nel 1977. A evidenziare la necessità di un attenzione nazionale al tema è il fatto che tra le Regioni italiane troviamo situazioni di grave arretratezza e rilevanti problemi.
Migliore è la situazione al centro-nord, dove il quadro delle regole è in maggioranza completo, i piani cava sono periodicamente aggiornati per rispondere alle richieste di una lobby dei cavatori organizzata. In generale la situazione è preoccupante: Veneto, Friuli, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Sicilia, Sardegna, Basilicata non hanno un piano cave. In Calabria addirittura non esiste una Legge, ne un Piano, in Regione non conoscono nemmeno il numero di cave aperte nel territorio. L’assenza dei piani è particolarmente preoccupante perché in pratica si lascia tutto il potere decisionale in mano a chi rilascia l’autorizzazione. E quando sono i Comuni – come avviene in quasi metà delle regioni – le entrate dalle cave possono diventare una voce di entrata fondamentale in un periodo di riduzione dei trasferimenti statali. Rilevante è il giro di affari di circa 5 miliardi di Euro l’anno, per il solo settore degli inerti. E ancora più incredibile è che a fronte di impatti tanto rilevanti a fronte di guadagni sicuri siano estremamente bassi i canoni di concessione, nelle Regioni del Mezzogiorno addirittura si cava gratis!
E se si considera il peso che le Ecomafie hanno nella gestione del ciclo del cemento e nel controllo della aree cava è particolarmente preoccupante una situazione in troppe aree del Paese praticamente priva di regole.
Delicata è poi la situazione quando si progettano e realizzano infrastrutture, perché in quei casi anche nelle Regioni provviste di Piani si esce dalle previsioni per cercare siti di cava ulteriori e l’esito è quasi sempre quello cui siamo abituati a vedere intorno alle principali strade e ferrovie italiane, con ai margini enormi buchi nelle colline. In generale tutte le Leggi regionali risultano indietro rispetto a una idea di moderna gestione del settore compatibile con il paesaggio e l’ambiente, in particolare per quanto riguarda le aree da escludere per l’attività, il recupero delle aree, la spinta al riuso di inerti provenienti dalle demolizioni edili.
Fonte: www.legambiente.eu
© Riproduzione riservata
>BR> Diventa dunque fondamentale capire la situazione dell’attività estrattiva in Italia, trovare numeri e capire le spinte che muovono il settore, fare il punto su politiche e competenze. Il Rapporto di Legambiente sulle cave è nato con questi obiettivi ed è stato costruito attraverso un questionario inviato alle Regioni, e incrociando i dati con studi e verifiche. Si occupa nello specifico dell’attività di cava e non di miniera e neanche dell’estrazione negli alvei fluviali in quanto vietata dalla maggior parte delle Autorità di Bacino fatta eccezione per specifiche esigenze idrauliche.
I numeri fotografati dal Rapporto sono impressionanti, le cave attive in Italia sono 5.725 mentre sono 7.774 quelle dismesse nelle Regioni in cui esiste un monitoraggio. Complessivamente si possono stimare in oltre 10mila quelle abbandonate se si considerano anche le 9 Regioni in cui non sono disponibili dati. Ancora più sorprendente è che la normativa nazionale di riferimento in materia sia ancora oggi un Regio Decreto del 1927. Un testo che esprime chiaramente un idea dell’attività estrattiva come settore industriale da sviluppare, e in cui sfruttare le risorse del suolo e sottosuolo al di fuori di qualsiasi considerazione territoriale, ambientale o paesaggistica.
A dettare le regole per l’attività estrattiva dovrebbero essere oggi le Regioni, a cui sono stati trasferiti i poteri in materia nel 1977. A evidenziare la necessità di un attenzione nazionale al tema è il fatto che tra le Regioni italiane troviamo situazioni di grave arretratezza e rilevanti problemi.
Migliore è la situazione al centro-nord, dove il quadro delle regole è in maggioranza completo, i piani cava sono periodicamente aggiornati per rispondere alle richieste di una lobby dei cavatori organizzata. In generale la situazione è preoccupante: Veneto, Friuli, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Sicilia, Sardegna, Basilicata non hanno un piano cave. In Calabria addirittura non esiste una Legge, ne un Piano, in Regione non conoscono nemmeno il numero di cave aperte nel territorio. L’assenza dei piani è particolarmente preoccupante perché in pratica si lascia tutto il potere decisionale in mano a chi rilascia l’autorizzazione. E quando sono i Comuni – come avviene in quasi metà delle regioni – le entrate dalle cave possono diventare una voce di entrata fondamentale in un periodo di riduzione dei trasferimenti statali. Rilevante è il giro di affari di circa 5 miliardi di Euro l’anno, per il solo settore degli inerti. E ancora più incredibile è che a fronte di impatti tanto rilevanti a fronte di guadagni sicuri siano estremamente bassi i canoni di concessione, nelle Regioni del Mezzogiorno addirittura si cava gratis!
E se si considera il peso che le Ecomafie hanno nella gestione del ciclo del cemento e nel controllo della aree cava è particolarmente preoccupante una situazione in troppe aree del Paese praticamente priva di regole.
Delicata è poi la situazione quando si progettano e realizzano infrastrutture, perché in quei casi anche nelle Regioni provviste di Piani si esce dalle previsioni per cercare siti di cava ulteriori e l’esito è quasi sempre quello cui siamo abituati a vedere intorno alle principali strade e ferrovie italiane, con ai margini enormi buchi nelle colline. In generale tutte le Leggi regionali risultano indietro rispetto a una idea di moderna gestione del settore compatibile con il paesaggio e l’ambiente, in particolare per quanto riguarda le aree da escludere per l’attività, il recupero delle aree, la spinta al riuso di inerti provenienti dalle demolizioni edili.
Fonte: www.legambiente.eu
© Riproduzione riservata