Edifici condonati, Piani casa e rigenerazione urbana: dalla Corte costituzionale un ritorno al passato?

di Andrea Di Leo - 09/02/2022

La recente sentenza 28.1.2022, n. 24 della Corte costituzionale ha affrontato numerosi aspetti attinenti il rapporto tra la L.R. Sardegna 18.1.2021, n. 1 (“Disposizioni per il riuso, la riqualificazione ed il recupero del patrimonio edilizio esistente ed in materia di governo del territorio. Misure straordinarie urgenti e modifiche alle leggi regionali n. 8 del 2015, n. 23 del 1985, n. 24 del 2016 e n. 16 del 2017”) ed il d.P.R. n. 380/2001.

Tra i temi affrontati ve ne è uno che non può passare in secondo piano, benché, come vedremo, sia stato esaminato dalla Consulta in maniera assai sommaria.

La norma regionale oggetto di impugnativa statale

La L.R. Sardegna 1/2021 aveva modificato, tramite l’art. 11, co. 1, la disposizione di cui all’art. 36, co. 2, della L.R. 8/2015, la quale detta disposizioni comuni circa le “norme per il miglioramento del patrimonio edilizio esistente”, tra le quali anche talune ipotesi di incremento volumetrico degli edifici esistenti.

In particolare, era stato previsto – modificando il testo originario della disposizione – che “i volumi oggetto di condono edilizio sono computati nella determinazione del volume urbanistico cui parametrare l’incremento volumetrico” (nella versione ante L.R. 1/2021 si prevedeva che i volumi condonati non fossero computati).

Come si legge nella impugnativa promossa dal Governo tale previsione era stata censurata tra l’altro in quanto in ipotesi violativa anche “dell'art. 11 del decreto-legge n. 112 del 2008, e all'art. 5, commi 9 e seguenti, del decreto-legge n. 70 del 2011, nonché con l'espresso divieto di applicazione del c.d. primo piano casa agli immobili condonati, previsto dall'Intesa del 2009”.

La sentenza 24/2022 della Corte costituzionale

La Corte costituzionale ha ritenuto fondata la questione secondo la motivazione di seguito riportata:

“Il 31 marzo 2009, Governo, Regioni ed enti locali hanno stipulato un’intesa volta a favorire iniziative per il rilancio dell’economia e a introdurre incisive misure di semplificazione dell’attività edilizia. (…) L’intesa puntualizza che gli interventi edilizi non possono riferirsi a edifici abusivi ovvero ubicati nei centri storici o in aree di inedificabilità assoluta.

L’art. 5, comma 9, del d.l. n. 70 del 2011, nel tradurre in legge dello Stato l’intesa raggiunta, affida alle Regioni il compito di approvare leggi finalizzate a incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente, a promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti e di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione o da rilocalizzare, anche alla luce dell’esigenza di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili. (…)

Tali interventi – precisa l’art. 5, comma 10, del d.l. n. 70 del 2011 – non possono riferirsi a edifici abusivi o siti nei centri storici o in aree di inedificabilità assoluta, «con esclusione degli edifici per i quali sia stato rilasciato il titolo abilitativo edilizio in sanatoria». È la stessa previsione della legge statale a chiarire la portata del divieto di beneficiare delle premialità volumetriche con riguardo agli immobili abusivi. Questo divieto non opera solo quando sia stato rilasciato il titolo edilizio in sanatoria.

Tale nozione si deve interpretare in senso restrittivo, in coerenza con la terminologia adoperata dal legislatore e con la ratio della normativa in esame. Il titolo in sanatoria, che rileva agli effetti della concessione di premialità volumetrica, differisce dal condono valorizzato dal legislatore regionale.

Mentre il condono ha per effetto la sanatoria non solo formale ma anche sostanziale dell’abuso, a prescindere dalla conformità delle opere realizzate alla disciplina urbanistica ed edilizia (sentenza n. 50 del 2017, punto 5 del Considerato in diritto), il titolo in sanatoria presuppone la conformità alla disciplina urbanistica e edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’immobile sia al momento della presentazione della domanda (sentenza n. 107 del 2017, punto 7.2. del Considerato in diritto).

A favore dell’interpretazione restrittiva milita il carattere generale del divieto di concessione di premialità volumetriche per gli immobili abusivi, espressivo della scelta fondamentale del legislatore statale di disconoscere vantaggi in caso di abuso e di derogare a tale principio in ipotesi tassative. (…)”.

Tale affermazione, ancorché contenuta in una decisione riferita espressamente alla legislazione della Regione Sardegna, pone seri interrogativi ed apre scenari assai problematici avuto riguardo all’intera legislazione regionale che, dal 2009 ad oggi, tanto nelle leggi sui Piani casa “di prima generazione”, quanto nelle più recenti discipline sulla rigenerazione urbana ed il recupero dell’edilizia esistente, ha spesso utilizzato la leva delle premialità di cubatura, prevedendo l’applicabilità degli incentivi (e/o talune deroghe) anche agli edifici sanati tramite condono edilizio.

È il caso, per citare alcune legislazioni più recenti, della L.R. Lombardia 18/2019 (che, testualmente, nell’escludere gli immobili abusivi dalla disciplina del riuso del patrimonio dismesso, fa salvi quelli “per i quali siano stati rilasciati titoli edilizi in sanatoria ordinaria e straordinaria”, cfr. art. 3. co. 3) e della L.R. Lazio 7/2017 sulla rigenerazione urbana (che nel disciplinare le ipotesi di sanatoria rinvia alla relativa disciplina sul condono edilizio, cfr. art. 1, co. 2). Guardando, invece, al passato possiamo citare i Piani casa di cui alla la L.R. Marche 22/2009 (cfr. art. 4) e, ancora, quello della Regione Lazio (L.R. 21/2009). Numerose leggi, poi, non specificano in maniera puntuale se il titolo in sanatoria “sufficiente” per accedere al Piano casa sia anche il “condono edilizio” (così ad esempio la L.R. Abruzzo 13/2009 sul Piano casa o, tornando alle discipline più recenti, la L.R. Veneto 14/2019 in tema di “rigenerazione” ).

Critiche alla decisione della Corte costituzionale

La sentenza della Consulta risulta, ad avviso di chi scrive, non del tutto condivisibile e, comunque, non pare affrontare il problema in tutta la sua complessità.

L’argomento testuale e sistematico

Innanzi tutto, non convince affatto la tesi di fondo secondo la quale tanto l’Intesa Stato – Regioni sui Piani casa quanto l’art. 5, co. 9, D.L. 70/2011 avrebbero codificato un “principio fondamentale” che vincolerebbe le Regioni a non considerare, ai fini della disciplina sui Piani casa e della “razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate”, gli immobili regolarizzati “solo” tramite condono edilizio.

Infatti tanto l’Intesa (sul Piano casa) quanto l’art. 5, co. 10, D.L. 70/2011 non affrontano in maniera espressa la questione.

Testualmente – come anche riportato dalla Consulta in sentenza – tanto l’Intesa quanto la norma del D.L. 70/2011 si limitano a disporre che gli interventi edilizi ivi previsti “non possono riferirsi ad edifici abusivi o nei centri storici o in aree di inedificabilità assoluta”, aggiungendo il D.L. che da tale preclusione sono gli “edifici per i quali sia stato rilasciato il titolo abilitativo edilizio in sanatoria”.

La Corte costituzionale, a fronte di tale dato normativo (sicuramente suscettibile di più letture e “scelte” legislative attuative da parte delle Regioni, come si è visto prima), ha ritenuto che la “sanatoria” ivi menzionata non possa che essere l’accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001.

Tale ragionamento, tuttavia, appare (ad avviso di chi scrive) una evidente forzatura.

Infatti, dal punto di vista del lessico della normativa statale sia l’accertamento di conformità sia il condono costituiscono un “titolo abilitativo edilizio in sanatoria”.

Occorre partire dalle “origini”, ossia dalla L. 47/1985.

Ebbene, qui troviamo sia l’ “accertamento di conformità” (art. 13), ossia la “concessione o l'autorizzazione in sanatoria”, sia, al Capo IV (avente ad oggetto le “opere sanabili”), all’art. 31, la “sanatoria delle opere abusive” tramite la “concessione o autorizzazione in sanatoria”.

Come è noto, si tratta, da un lato, della sanatoria ordinaria (accertamento di conformità, oggi disciplinato dall’art. 36 D.P.R. 380/2001) e, dall’altro, della sanatoria straordinaria (nella prassi denominato “condono edilizio”, nomen iuris tuttavia assente nei testi normativi, succedutisi a partire dalla L. 47/85, regolanti appunto la sanatoria straordinaria).

Così stando le cose, allora, la tesi (pur autorevole) della Corte costituzionale appare andare ben oltre lo spazio interpretativo che la Legislazione statale, letta nel suo complesso, consente, finendo per introdurre un discrimine che né l’Intesa Stato – Regioni del 2009 né il D.L. 70/2011 paiono implicare, ove raccordate con la disciplina generale sulle “sanatorie”.

D’altronde, occorre evidenziare come le fonti esaminate dalla Consulta si riferiscono, quale ipotesi di non ammissibilità degli interventi, alla fattispecie di “edifici abusivi”: appare oltremodo discutibile affermare che un fabbricato condonato possa essere qualificato come “abusivo”.

Lo “stato legittimo” nella legislazione statale della L. 120/2020

Il tema affrontato dalla Corte, peraltro, non è, in termini generali (ossia a prescindere dalla specifica questione dei “piani casa” e simili), affatto nuovo, essendosi negli anni contrapposti due orientamenti giurisprudenziali circa la portata “pienamente” legittimante del condono edilizio ( o sanatoria staordinaria).

Infatti, secondo un (minoritario) indirizzo giurisprudenziale (Cons. Stato 5117/2002; TAR Campania, Napoli 4457/2019) i fabbricati condonati sarebbero muniti di uno “stato legittimo” per così dire “minore”, tale per cui sarebbe esclusa la possibilità di “disporre liberamente della volumetria oggetto di condono”.

Come è noto sul tema dello stato legittimo è intervenuto nel 2020 il Legislatore statale con l’art. 9-bis, co. 1-bis D.P.R. 380/2001 (introdotto da L. 120/2020).

Qui si dispone che “Lo stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa (…)”.

A fronte di tale novella normativa – dove si adopera una nozione ancora più ampia (titolo “che ha legittimato” l’immobile o la unità immobiliare) – la prima giurisprudenza ha osservato che il diverso orientamento giurisprudenziale (che riconosce al condono edilizio una efficacia pienamente sanante) “risulta oggi codificato dall’art. 9-bis, comma 1-bis, del d.p.r. n. 380/2001, inserito dal d.l. n. 76/2020, conv. in l. n. 120/2020” (TAR Liguria 361/2021).

La disposizione ex art. 9-bis, co. 1-bis D.P.R. 380/2001 rappresenta sicuramente una norma di principio (recando la definizione, al livello statale, della nozione di stato legittimo). Sorprende, quindi, che la decisione della Corte costituzionale non abbia quantomeno considerato tale “nuovo” parametro normativo nazionale.

Il precedente, di segno opposto, della giurisprudenza della Corte costituzionale

Andando poi ad esaminare la stessa giurisprudenza della Consulta ci si imbatte nella decisione 238/2000 laddove – vagliando una norma della Regione Umbria (che impediva per i fabbricati condonati gli interventi ammessi per gli altri edifici esistenti e legittimi) – il Giudice delle leggi era pervenuto a diverse conclusioni. Ebbene, al di là della peculiarità della fattispecie ivi trattata, la Corte costituzionale nella sentenza in esame aveva avuto modo di osservare che i fabbricati per i quali la norma regionale poneva limiti erano “in ogni caso di edifici legittimamente esistenti e ovviamente regolarmente assentiti (fin dall'origine o con valido condono in sanatoria non oggetto di successivi interventi repressivi o di annullamento) dal punto di vista urbanistico o sotto il profilo di speciali vincoli (assistiti da specifiche autorizzazioni e pareri ove richiesti: sentenza n. 529 del 1995).

Detto altrimenti, nella sentenza 238/2000 la Corte costituzionale da per pacifico che un fabbricato condonato debba essere considerato come “legittimamente esistente”.

Qualche riflessione conclusiva (anche sulla necessità di un nuovo intervento del legislatore statale)

Come visto, le conclusioni cui è pervenuta la Corte costituzionale lasciano sul campo diverse perplessità, sia dal punto di vista della interpretazione della normativa evocata dalla sentenza (la tesi secondo cui per “sanatoria” dovrebbe intendersi solo quella ordinaria e non anche quella “straordinaria”, ossia il condono, appare discutibile) sia dal punto di vista del mancato coordinamento di tale interpretazione con l’art. 9-bis, co. 1-bis D.P.R. 380/2001.

Peraltro, da un punto di vista più ampio e di “politica del diritto”, andrebbe anche svolta una riflessione circa gli effetti che potrebbe determinare la “assolutizzazione” del principio affermato dalla Consulta secondo la quale i fabbricati oggetto di condono non potrebbero essere considerati come “legittimi” ai fini delle varie normative speciali.

Ora, se è vero che il tema affrontato nella sentenza 24/2022 è “solo” la possibilità di computare i volumi condonati ai fini dell’incremento volumetrico premiale, risulta chiaro come il complessivo ragionamento della Corte costituzionale potrebbe essere a rigore esteso fino a rimettere in discussione, del tutto, la idoneità del condono a conferire uno stato legittimo “pieno” (e ciò, ad avviso di chi scrive, in contrasto con l’art. 9-bis, co. 1-bis D.P.R. 380/2001).

A ciò occorre aggiungere il rilievo che una impostazione del genere rischierebbe di frustrare le finalità e la ratio perseguite da moltissime normative sulla c.d. rigenerazione urbana e sul recupero del patrimonio edilizio esistente che spesso hanno come proprio oggetto anche (se non principalmente) quei numerosi edifici che, condonati dal 1985 in poi, necessitano più di tutti di interventi di radicale sostituzione edilizia, finalizzati alla riduzione dell’impatto ambientale dell’edificato.

Se così è, allora, considerare a priori (come la Corte costituzionale sembra fare) – ossia senza che la legislazione regionale possa al riguardo porre in essere i necessari bilanciamenti di valori ed interessi - le cubature condonate come non utilizzabili ai fini dei processi di recupero del patrimonio edilizio (o di rigenerazione urbana) pare una affermazione non solo discutibile dal punto di vista delle norme vigenti, ma anche in controtendenza rispetto alla attuale evoluzione della disciplina del Governo del territorio.

Il rischio – in assenza di un intervento chiarificatore del Legislatore statale – è che sulla scia della sentenza 24/2022 possano essere messe in discussione tutte quelle discipline regionali che, da diversi anni, hanno avviato processi di rigenerazione e recupero di immobili dismessi o in degrado, quali sono, spesso, quelli oggetto di sanatoria straordinaria. Processi nei quali, spesso, la premialità volumetrica (affiancata da rilevanti obiettivi di miglioramento ed efficientamento del patrimonio edilizio) costituisce un’importante leva atta a superare la nota diseconomia tra il recupero dell’esistente (a partire dai costi delle demolizioni e dagli oneri di bonifica) e la realizzazione di nuovi fabbricati.



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