Stato legittimo e ante '67: no alle varianti regionali a maglie larghe
di Gianluca Oreto - 25/10/2022
Il d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) prevede che le Regioni possano esercitare la potestà legislativa concorrente in materia edilizia nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico. Un principio chiave che negli anni ha comportato parecchie interpretazioni, rinvii e modifiche della norma nazionale, alcune delle quali non sono passate al vaglio della Corte Costituzionale dopo l'impugnativa da parte del Governo nazionale.
Testo Unico Edilizia e stato legittimo
È quello che è accaduto all’art. 7 della legge della Regione Veneto 30 giugno 2021, n. 19, che ha introdotto l’art. 93-bis nella legge della Regione Veneto 27 giugno 1985, n. 61, sul quale il Presidente del Consiglio dei ministri ha presentato ricorso notificato il 31 agosto 2021.
Un ricorso al quale la Corte Costituzionale ha risposto con la sentenza n. 217 del 21 ottobre 2022 che ha confermato l'illegittimità dell'articolo in questione.
Un articolo nato dopo una delle recenti modifiche apportate al Testo Unico Edilizia che nel 2020 ha ricevuto un restyling con il Decreto Legge n. 76/2020 (il primo Decreto Semplificazioni) che, tra le altre cose, ha introdotto per la prima volta il concetto di "stato legittimo".
In particolare, con l'art. 10, comma 1, lettera d) del Decreto Semplificazioni è stato aggiunto all'art. 9-bis del testo unico edilizia il seguente comma 1-bis:
Lo stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto ovvero da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Le disposizioni di cui al secondo periodo si applicano altresì nei casi in cui sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia.
Il recepimento della Regione Veneto
Stato legittimo che è stato recepito dalla Regione Veneto con "qualche" modifica. L'art. 7 della Legge n. 19/2021 ha, infatti, aggiunto dopo l'articolo 93 della Legge n. 61/1985 il seguente:
"Art. 93 bis
Stato legittimo dell'immobile - Tolleranze.
1. ln attuazione dell'articolo 9-bis, comma 1-bis, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, lo stato legittimo di immobili in proprietà o in disponibilità di soggetti non autori di variazioni non essenziali risalenti ad epoca anteriore al 30 gennaio 1977, data di entrata in vigore della legge 10/1977 e dotati di certificato di abitabilità/agibilità, coincide con l'assetto dell'immobile al quale si riferiscono i predetti certificati, fatta salva l'efficacia di eventuali interventi successivi attestati da validi titoli abilitativi.
2. Lo stato legittimo di immobili realizzati in zone esterne ai centri abitati e alle zone di espansione previste da eventuali piani regolatori in epoca anteriore al 1° settembre 1967 è attestata dall'assetto dell'edificio realizzato entro quella data e adeguatamente documentato, non assumendo efficacia l'eventuale titolo abilitativo rilasciato anche in attuazione di piani, regolamenti o provvedimenti di carattere generale comunque denominati, di epoca precedente".
I rilievi della Corte Costituzionale
Come rilevato dalla Corte Costituzionale:
- il comma 1 riguarda gli immobili che abbiano formato oggetto di variazioni non essenziali risalenti a epoca antecedente al 30 gennaio 1977 e stabilisce che, qualora detti immobili siano in proprietà o in disponibilità di soggetti non autori delle variazioni non essenziali e siano dotati di certificato di abitabilità o agibilità, lo stato legittimo «coincide con l’assetto dell’immobile al quale si riferiscono i predetti certificati, fatta salva l’efficacia di eventuali interventi successivi attestati da validi titoli abilitativi»;
- il successivo comma 2 attiene, invece, agli immobili realizzati in epoca anteriore al 1° settembre 1967 in zone esterne ai centri abitati o alle zone di espansione, previste da eventuali piani regolatori: per tali ipotesi, la condizione di stato legittimo «è attestata dall’assetto dell’edificio realizzato entro quella data e adeguatamente documentato, non assumendo efficacia l’eventuale titolo abilitativo rilasciato anche in attuazione di piani, regolamenti o provvedimenti di carattere generale comunque denominati, di epoca precedente».
Il ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri
Il ricorso alla Corte Costituzionale si articola in due ordini di censure:
- con una prima questione viene contestato che la disposizione regionale impugnata esorbiterebbe dai limiti della competenza legislativa concorrente relativa alla materia «governo del territorio», così violando l’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto conterrebbe definizioni del concetto di stato legittimo degli immobili radicalmente difformi rispetto a quelle previste dall’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia, ritenuto espressivo di un principio fondamentale della materia;
- con un secondo gruppo di censure, il Presidente del Consiglio dei ministri fa valere la violazione sempre dell’art. 117, terzo comma, Cost., in riferimento alla materia «governo del territorio», nonché degli artt. 3, 117, primo e settimo comma, Cost.
Secondo il Presidente del Consiglio dei Ministri dallo “stato legittimo” dell’edificio, dipende, anche ai fini del rilascio di nuovi titoli edilizi, la qualificazione dell’immobile preesistente in termini di regolarità o abusività. Pertanto, «nell’introdurre parametri diversi da quelli previsti dalla legge statale per stabilire se un edificio è regolare o abusivo, la disposizione regionale impugnata» introdurrebbe «elementi di difformità della normativa urbanistica ed edilizia nel contesto considerato, rispetto alla disciplina vigente nelle altre parti del territorio nazionale».
Le conferme della Corte Costituzionale - il comma 1
Nel merito, la questione di legittimità costituzionale prospettata in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., relativamente all’art. 9-bis, comma 1-bis, del testo unico edilizia è fondata.
Secondo i giudici della Corte Costituzionaler, i criteri di determinazione dello stato legittimo dell’immobile rappresentano un principio fondamentale della materia, che richiede una disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale. In tal senso risulta palese la distanza della previsione regionale impugnata dal contenuto della norma di principio.
Non convince neanche l’argomentazione sviluppata dalla difesa regionale, secondo la quale, prima dell’entrata in vigore della legge n. 10 del 1977, le variazioni non essenziali, in quanto non disciplinate, sarebbero state per prassi consentite, fatta salva la semplice ispezione compiuta in vista del rilascio del certificato di abitabilità ex art. 221 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie).
L’eccezione trascura che nei periodi storici cui la disposizione impugnata si riferisce, ogni variazione esecutiva, persino di minimo impatto costituiva una violazione edilizia che imponeva la rimozione della difformità.
Con la legge n. 10 del 1977, il regime sanzionatorio è stato semplicemente graduato secondo uno schema generale tuttora vigente:
- le opere eseguite in assenza di concessione o in totale difformità dalla stessa dovevano essere demolite a spese del proprietario o del costruttore (art. 15, terzo e ottavo comma);
- le opere invece realizzate in parziale difformità dovevano essere demolite a spese del concessionario, ma, ove non potessero essere rimosse senza pregiudizio per le parti conformi, il concessionario restava assoggettato a una sanzione amministrativa pecuniaria (art. 15, undicesimo comma).
A tale graduazione sanzionatoria si è, successivamente, correlata la differenziazione tra variazioni essenziali e non essenziali, introdotta dagli artt. 7 e 8 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), di seguito trasfusi negli artt. 31 e 32 t.u. edilizia.
In particolare, le variazioni essenziali vengono assoggettate al più severo regime sanzionatorio proprio della totale difformità, mentre quelle non essenziali restano ascritte al vizio della parziale difformità, correlato alle sanzioni stabilite, all’epoca, dall’art. 12 della legge n. 47 del 1985 e, di seguito, dall’art. 34 t.u. edilizia.
Né tali variazioni sfuggono ad una connotazione in termini di violazioni amministrative, in conseguenza del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre 2014, n. 164, che ha inserito il comma 2-bis nell’art. 22 t.u. edilizia, in cui viene contemplata la possibilità di presentare una segnalazione certificata d’inizio attività (SCIA) in caso di varianti al permesso di costruire che non costituiscano variazioni essenziali, se realizzate in corso di esecuzione dei lavori.
La legittimità delle opere in parola sussiste, pertanto, soltanto a condizione che la SCIA inerente alle varianti al permesso di costruire sia comunicata a fine lavori, tramite attestazione del professionista. Di conseguenza, la citata disciplina non può risolvere il problema delle variazioni non essenziali che non soddisfino tale condizione, le quali continueranno a costituire una parziale difformità ai sensi dell’art. 34 t.u. edilizia, salva l’eventuale sanatoria di cui all’art. 36 t.u. edilizia, ove ne ricorrano i presupposti.
L’unica ipotesi in cui possono ritenersi regolari difformità esecutive rispetto a titoli abilitativi rilasciati in passato è quella delle cosiddette tolleranze costruttive, previste per la prima volta dall’art. 5, comma 2, lettera a), del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, che aveva introdotto il comma 2-ter nell’art. 34 t.u. edilizia, e di seguito disciplinate dal nuovo art. 34-bis t.u. edilizia (introdotto dall’art. 10, comma 1, lettera p, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, con modificazioni, nella legge n. 120 del 2020).
Quest’ultimo, in particolare, stabilisce che le tolleranze costruttive – ossia le difformità esecutive contenute nel limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo – non costituiscono violazioni edilizie (commi 1 e 2) e che, ove «realizzate nel corso di precedenti interventi edilizi […] sono dichiarate dal tecnico abilitato, ai fini dell’attestazione dello stato legittimo degli immobili, nella modulistica relativa a nuove istanze, comunicazioni e segnalazioni edilizie ovvero con apposita dichiarazione asseverata allegata agli atti aventi per oggetto trasferimento o costituzione, ovvero scioglimento della comunione, di diritti reali» (comma 3).
Se ne inferisce con chiarezza che le difformità eccedenti la soglia del 2 per cento, ancorché risalenti nel tempo, restano variazioni non essenziali, che integrano una parziale difformità.
In linea con la legislazione statale, la stessa legge reg. Veneto n. 61 del 1985, nella quale si colloca la disposizione impugnata, definisce:
- per un verso, all’art. 92 – in attuazione dell’art. 32 t.u. edilizia – le variazioni non essenziali (per esclusione rispetto a quelle essenziali), evidenziandone i tratti tutt’altro che marginali;
- per un altro verso, al successivo art. 93, prevede che gli interventi realizzati in parziale difformità dal titolo comportino la demolizione della parte difforme oppure, nel caso in cui ciò non possa essere realizzato senza pregiudizio della parte conforme, l’assoggettamento a una sanzione amministrativa.
Si palesa, a questo punto, il contrasto dell’art. 93-bis, comma 1, della legge reg. Veneto n. 61 del 1985 rispetto all’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia, là dove, con riferimento a fattispecie per le quali la norma statale richiede il titolo abilitativo edilizio, affida la dimostrazione dello stato legittimo dell’immobile al ben diverso documento costituito dal certificato di abitabilità o di agibilità.
In particolare, se è certamente vero che, in base all’art. 221 del r.d. n. 1265 del 1934 (vigente nel periodo cui si riferisce la disposizione regionale), tale certificato doveva essere rilasciato solo dopo aver verificato che la costruzione fosse stata eseguita in conformità al progetto approvato, nondimeno, questo non giustifica che tale documento possa surrogarsi al titolo abilitativo edilizio.
Come più volte ha osservato la giurisprudenza amministrativa, la conformità edilizio-urbanistica costituisce presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato che oggi si definisce di agibilità, ma «tale considerazione non può […] essere strumentalmente piegata a ragionamenti del tutto speculativi e sillogistici al fine di affermare che il rilascio dei certificati di agibilità implica un giudizio (presupposto ed implicito) circa la natura non abusiva delle opere».
Semmai, secondo la Corte, l’interprete si dovrebbe interrogare sulla legittimità di tali certificati, non già desumere dal rilascio di essi una qualità – la conformità edilizio-urbanistica – da essi indipendente e anzi presupposta.
In definitiva, la Corte Costituzionale ha concluso per l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 della legge reg. Veneto n. 19 del 2021, che ha introdotto l’art. 93-bis, comma 1, nella legge reg. Veneto n. 61 del 1985.
Le conferme della Corte Costituzionale - il comma 2
Relativamente al comma 2 della medesima disposizione, anch’esso presenta discrasie rispetto ai principi enunciati nell’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia.
Tale comma, nel regolare gli immobili realizzati, in epoca antecedente al 1° settembre 1967, in zone esterne ai centri abitati e alle zone di espansione previste da eventuali piani regolatori, dispone che la condizione di stato legittimo sia attestata dall’assetto dell’edificio realizzato entro quella data e adeguatamente documentato, mentre viene esclusa l’efficacia dell’eventuale titolo abilitativo rilasciato anche in attuazione di piani, regolamenti o provvedimenti di carattere generale comunque denominati, di epoca precedente.
La norma, nel dissociare lo stato legittimo dell’immobile dal titolo abilitativo edilizio, apparentemente si correla al secondo periodo dell’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia, che esclude, ai fini dello stato legittimo, la necessità di tale documentazione per il periodo in cui il titolo edilizio non era obbligatorio. E, in effetti, prima della legge n. 765 del 1967, entrata in vigore proprio il 1° settembre 1967, l’art. 31 della legge n. 1150 del 1942 imponeva in via generale la licenza di costruzione solo nei centri abitati e, per i comuni dotati di un piano regolatore generale, nelle zone di espansione esterne a essi.
Sennonché, pure al di fuori dei centri abitati e delle zone di espansione, nonché prima della legge n. 1150 del 1942, la necessità di un titolo abilitativo edilizio veniva, a ben vedere, disposta anche da altre fonti.
Anzitutto, per gli immobili realizzati in comuni ricadenti in zone sismiche, l’obbligo era sancito a livello di fonte primaria dal regio decreto-legge 25 marzo 1935, n. 640 (Nuovo testo delle norme tecniche di edilizia con speciali prescrizioni per le località colpite dai terremoti) e dal regio decreto-legge 22 novembre 1937, n. 2105 (Norme tecniche di edilizia con speciali prescrizioni per le località colpite dai terremoti), il cui Allegato comprendeva alcune province della Regione Veneto.
Inoltre, l’obbligo di previa autorizzazione alla costruzione poteva essere disposto dal regolamento edilizio comunale, emanato in esecuzione della potestà regolamentare attribuita ai comuni nella materia edilizia dai testi unici della legge comunale e provinciale susseguitisi nel tempo: regio decreto 10 febbraio 1889, n. 5921 (Che approva il testo unico della legge comunale e provinciale), regio decreto 21 maggio 1908, n. 269 (Che approva l’annesso testo unico della legge comunale e provinciale), regio decreto 4 febbraio 1915, n. 148 (È approvato l’annesso nuovo testo unico della legge comunale e provinciale).
Se ne desume, dunque, che, prima della data indicata nel comma 2 della disposizione regionale impugnata, vi erano comuni nei quali era obbligatorio munirsi di un titolo abilitativo edilizio, sia sulla base di fonti primarie riferite a territori sismici, sia sulla base di fonti non primarie, che però attingevano la loro legittimazione dalla fonte primaria attributiva del potere regolamentare.
Ne consegue che l’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia, là dove si riferisce alla obbligatorietà del titolo, abbraccia certamente anche le citate fonti, il che determina il disallineamento dell’art. 93-bis, comma 2, della legge regionale impugnata che, viceversa, ascrive tali casi, in cui era obbligatorio il titolo, alla modalità semplificata di attestazione dello stato legittimo.
A ciò si aggiunga che il citato art. 93-bis, comma 2, non si limita a riconoscere – ai fini dello stato legittimo – la possibilità di avvalersi di altri documenti in mancanza del titolo edilizio, ma dispone altresì d’imperio la non efficacia di titoli abilitativi rilasciati in adempimento di obblighi previsti da fonti primarie speciali o da fonti non primarie.
Sennonché, altro è consentire – come fa l’art. 9-bis, comma 1-bis, secondo periodo, t.u. edilizia – l’attestazione semplificata dello stato legittimo per gli immobili realizzati in epoche in cui il titolo non era obbligatorio, altro è negare l’efficacia di titoli abilitativi legittimamente rilasciati.
Questo, peraltro, non sarebbe in sintonia con la giurisprudenza amministrativa che ha ribadito la persistente vigenza dei regolamenti comunali emanati anteriormente all’approvazione della legge urbanistica (Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 29 luglio 2019, n. 5330 e, sezione sesta, sentenza 28 luglio 2017, n. 3789).
Ne discende che anche il comma 2 dell’art. 93-bis compromette le funzioni che la norma statale interposta attribuisce all’attestazione dello stato legittimo, finendo addirittura con l’incidere su titoli abilitativi edilizi pienamente validi ed efficaci.
Conclusioni
Concludendo, la Corte Costituzionale:
- dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 della legge della Regione Veneto 30 giugno 2021, n. 19 (Semplificazioni in materia urbanistica ed edilizia per il rilancio del settore delle costruzioni e la promozione della rigenerazione urbana e del contenimento del consumo di suolo – “Veneto cantiere veloce”), che ha introdotto l’art. 93-bis nella legge della Regione Veneto 27 giugno 1985, n. 61 (Norme per l’assetto e l’uso del territorio);
- dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge reg. Veneto n. 19 del 2021, promosse, in riferimento agli artt. 3, 117, primo, terzo e settimo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.
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