Certificato di agibilità: non attesta lo stato legittimo di un immobile
Il permesso di costruire ed il certificato di agibilità sono collegati a presupposti diversi, non sovrapponibili fra loro. La conferma dal TAR Sicilia
In tempi di Decreto Salva-Casa, che con l'inserimento del comma 1-bis all’art. 9-bis del Testo Unico Edilizia ha modificato le disposizioni sullo stato legittimo, è bene ribadire che il certificato di agibilità non certifica la regolarità urbanistico-edilizia dell’immobile, ma risponde ad altre finalità.
Certificato di agibilità: non equivale al permesso di costruire
Lo specifica il TAR Sicilia con la sentenza del 24 giugno 2024, n. 2046, con cui ha anche richiamato il costante orientamento della giurisprudenza per cui il permesso di costruire ed il certificato di agibilità sono collegati a presupposti diversi, non sovrapponibili fra loro:
- il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l'immobile sia stato realizzato secondo le norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti;
- il titolo edilizio è finalizzato all'accertamento del rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche.
Ciò significa che il rilascio del certificato di abitabilità (o di agibilità) non preclude quindi agli uffici comunali la possibilità di contestare successivamente la presenza di difformità rispetto al titolo edilizio, né costituisce rinuncia implicita a esigere il pagamento dell'oblazione per il caso di sanatoria, in quanto il certificato svolge una diversa funzione, ossia garantisce che l'edificio sia idoneo ad essere utilizzato per le destinazioni ammissibili.
Sulla base di questi presupposti, il Collegio ha quindi respinto il ricorso contro un ordine di demolizione relativo a opere abusive realizzate in un complesso alberghiero e contro un provvedimento di rigetto di una SCIA in sanatoria ai sensi dell'art. 37 del d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia).
Il complesso sul quale era stata presentata domanda di condono ai sensi della L. 47/1985 era stato acquistato dalla ricorrente, a conoscenza degli abusi edilizi. L’edificio principale era stato realizzato nel 1964 previo parere favorevole della Soprintendenza ed è stato dichiarato abitabile nel 1976, e ha ottenuto l’agibilità nel 2015. Successivamente il Comune ha intimato la demolizione delle opere ritenute prive di un titolo edilizio valido ed efficace, ovvero in difformità a quelli rilasciati in precedenza.
In particolare ha dichiarato l’inefficacia della SCIA per carenza dei presupposti e dei requisiti di legge, puntualizzando che non risulta verificata la conformità urbanistica ed edilizia del manufatto con riferimento all’epoca di realizzazione dei lavori e che le opere oggetto della SCIA presentata non rientrano tra quelle (di cui all'articolo 22, commi 1 e 2, realizzate in assenza della o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività) suscettibili di essere sanate attraverso la procedura prevista dall’art. 37 del Testo Unico Edilizia.
Per altro in base al P.R.G. del 1974, adottato con delibere del 1967 e del 1968, l’area della ricorrente rientrava in zona vincolata (vincolo paesaggistico e monumentale). Secondo la ricorrente invece l’area in cui insiste il complesso immobiliare in questione dal 1967 al 1982 non era sottoposta a vincolo di inedificabilità.
Abitabilità e agibilità non certificano la conformità urbanistico-edilizia
Il TAR ha respinto il ricorso, a iniziare dal fatto che il Comune sarebbe intervenuto dopo 48 anni a intimare la demolizione senza ritirare in autotutela i numerosi atti (es.abitabilità del 1976 e agibilità del 2015) con i quali avrebbe implicitamente ammesso la conformità urbanistico-edilizia dei manufatti.
Spiega il giudice che nessun affidamento tutelabile nei confronti della pubblica amministrazione può derivare dal fatto che la dante causa abbia taciuto le vicende sopradette al momento dell’acquisto, né alcun affidamento legittimo deriva dall’inerzia tenuta dall’amministrazione comunale a fronte della segnalazione certificata di agibilità presentata dalla ricorrente e delle pratiche edilizie accessorie avviate dopo l’acquisto del complesso turistico-ricettivo, dal momento che il certificato di agibilità, come da costante giurisprudenza, non certifica la regolarità urbanistico-edilizia dell’immobile, ma risponde ad altre finalità.
Non rileva nemmeno che nel 1982, l’Amministrazione, dopo aver rilasciato l’agibilità nel 1976, avrebbe calato integralmente il complesso turistico in questione nella pianificazione generale con l’adozione del Piano Particolareggiato, che prevede – per la maggior estensione dell’area oggi di proprietà della ricorrente – la destinazione d’uso “completamento della ricettività alberghiera”.
Questo perché la sopravvenuta modifica della disciplina urbanistica comunale non può essere considerata alla stregua di un titolo abilitativo tacito, rilasciato ex post e sostanzialmente in sanatoria al di fuori della procedura tipica prevista dall’art. 36, d.P.R. 380/2001 per l’accertamento di conformità.
Lo strumento urbanistico non si confonde mai con il titolo abilitativo, costituendo piuttosto premessa e presupposto di legittimità del titolo stesso, e che la sopravvenuta modifica della disciplina urbanistica, in senso conforme alle aspettative del proprietario dell’immobile, non esime in ogni caso l’autorità urbanistica dall’onere di accertare la “doppia conformità” dell’opera ai fini del rilascio del permesso in sanatoria, secondo un procedimento apposito da avviarsi su richiesta dell’interessato ai sensi dell’art. 36 cit.
Ordine di demolizione: valido anche se tardivo
Inoltre, per consolidato insegnamento giurisprudenziale, il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino (Cons. Stato, Ad. Plen., 17 ottobre 2017 n. 9).
Non solo: l’acquirente di un complesso immobiliare abusivo non può ritenersi autonomamente legittimato a impugnare provvedimenti sanzionatori emessi a carico del proprio dante causa e di cui sia venuto a conoscenza successivamente, poiché l’avente causa subentra nella condizione urbanistico-edilizia che l’immobile aveva in capo al dante causa al tempo del trasferimento e l’ipotetica “buona fede” dell’acquirente potrebbe rilevare soltanto nei rapporti interni tra la ricorrente ed il proprio dante causa ed ai fini di possibili responsabilità precontrattuali di quest’ultimo, ma certamente non spiega alcun effetto con riferimento alla definitiva stabilizzazione, nel rapporto pubblicistico-amministrativo con l’Amministrazione, degli effetti delle molteplici ordinanze che hanno decretato l’abusività di tutte le opere precedentemente realizzate sull’area in questione.
Diversamente, dovrebbe ammettersi per assurdo che si riaprano i termini per impugnare i provvedimenti sanzionatori dal punto di vista urbanistico-edilizio a ogni passaggio di proprietà,bastando che l’alienante taccia in mala fede della loro esistenza all’acquirente, con totale vanificazione del principio della certezza del diritto.
D’altronde, come chiarito in giurisprudenza, i provvedimenti sanzionatori a contenuto ripristinatorio/demolitorio riferiti ad opere abusive hanno carattere reale, con la conseguenza che la loro adozione prescinde dalla responsabilità del proprietario o dell'occupante l'immobile, applicandosi gli stessi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell'irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell'ordine giuridico violato.
Da ciò deriva che “La proprietaria potrà far valere eventuali diritti risarcitori nei confronti di chi non ha tutelato il proprio interesse ad acquistare un bene privo di difformità urbanistiche (dante causa e ufficiale rogante). Ma non può invocare l'illegittimità dei provvedimenti di cui si discute in questa sede”.
Inoltre, pur ammettendo che vi fossero tutti i pareri favorevoli degli enti preposti (Soprintendenza e altri), l’abuso edilizio rimane, visto che le opere sono state eseguite senza titolo abilitativo ovvero, il che è lo stesso, in base a un titolo abilitativo divenuto inefficace.
SCIA in sanatoria: presupposti e interventi ammessi
In riferimento all’inefficacia della SCIA presentata ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. n. 380/2001 per la regolarizzazione di 20 casette e dei corpi accessori oggetto di ordine di demolizione, si evidenzia che il diniego poggia su due ragioni indipendenti, ciascuna delle quali sufficiente a sostenere il provvedimento impugnato:
- manca il requisito della doppia conformità, quanto alla conformità iniziale dell’immobile;
- gli interventi eseguiti abusivamente non possono essere realizzati tramite semplice Scia e, pertanto, non ne è ammessa la sanatoria a norma dell’art. 37, comma 4, d.P.R. 380/2001.
Secondo la giurisprudenza sia amministrativa che penale, la doppia conformità va valutata con riferimento non solo al PRG approvato, ma anche a quello adottato e vigente in regime di salvaguardia, poiché neppure in quel frangente il proprietario avrebbe potuto ottenere dal Comune il permesso di costruire, stante il chiaro disposto dell’art. 12, comma 3, d.P.R. 380/2001 e, prima ancora, dell’art. 10, comma 5 della l. 1150/1942 per cui “Nelle more di approvazione del piano le normali misure di salvaguardia di cui alla L. 3 novembre 1952, n. 1902 e successive modificazioni sono obbligatorie”.
Tenendo conto delle misure di salvaguardia il requisito della doppia conformità in questo caso non viene certamente soddisfatto, venendo a mancare la conformità iniziale delle opere abusivamente realizzate.
Inoltre gli interventi eseguiti abusivamente non potevano essere realizzati tramite semplice Scia e, pertanto, non ne è ammessa la sanatoria a norma dell’art. 37, comma 4, d.P.R. 380/2001.
L’art. 10, comma 6, lett. c), l.r. n. 16/2016 (previsione che trova esatta corrispondenza nell’art. 23, comma 01, lett. b), d.P.R. 380/2001, espressamente richiamato dall’art. 36, d.P.R. medesimo, ai fini dell’accertamento di conformità) individua degli interventi soggetti a Scia alternativa a permesso di costruire, per i quali la sanatoria è ammessa nelle forme e nei modi dell’art. 36 (applicabile “[i]n caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in mancanza di segnalazione certificata di inizio attività nelle ipotesi di cui all’articolo 23, comma 01, o in difformità da essa”), cioè con permesso di costruire in sanatoria, e non nelle forme dell’art. 37, applicabile invece agli interventi soggetti a Scia semplice.
Nessuna possibilità di sanatoria per interventi di questa portata ed eseguiti senza Permesso di Costruire, con piena legittimità del diniego da parte dell'Amministrazione Comunale.
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SentenzaIL NOTIZIOMETRO