Il Codice dei contratti, il PNRR e la cultura dei risultati
Per la riforma del Codice dei contratti potrebbe risultare utile interrogarsi su cosa non abbia funzionato in questi trent'anni di riforme amministrative
A parlar male comincia tu. Parafrasando una nota canzone di un'amatissima soubrette si può riassumere il senso delle tante critiche che sono state rivolte nei confronti del Codice Appalti e Concessioni del 2016, oggetto di una profonda revisione da parte di una riforma in corso di approvazione, una delle più attese tra quelle previste dal PNRR.
La riforma del Codice dei contratti e il principio del risultato
Il testo, elaborato dal Consiglio di Stato e, con alcune modifiche, fatto proprio dal Governo, presenta elementi di forte discontinuità con i suoi precedenti, a partire dal ridotto rinvio ad atti regolamentari, dalla promozione della co-progettazione con i soggetti del Terzo settore, dal suo essere preceduto da una serie di principi generali che ne fanno un Codice aperto all'interpretazione delle stazioni appaltanti, secondo i criteri del risultato, della fiducia reciproca, dell'accesso al mercato.
Tra questi principi spicca quello del risultato, da collegare con l'autonomia contrattuale delle PA - invero acquisita da tempo - con la scelta quindi dei mezzi necessari per raggiungere gli obiettivi, con quello della fiducia reciproca tra funzionari e operatori economici, e con la finalità di realizzare opere e servizi con la “massima tempestività”.
Sarà la sua applicazione a confermare se questi assunti, posti come un dover essere delle PA, verranno tradotti in prassi operative per le quali, stando sempre al nuovo testo, sembra volersi dare grande importanza alla discrezionalità e alla regola del caso concreto, secondo logiche di buona amministrazione e di buona fede.
Il punto è che, di risultati, in tutti i settori della PA, si parla da 30 anni, da quando i Governi con Ciampi, Cassese e Bassanini introdussero, accanto alla privatizzazione del rapporto di lavoro, la responsabilità da risultato per la dirigenza nonché regole, per lo più giuridiche, che in un modo o nell'altro, hanno diretto l'attività amministrativa.
Detto ciò è un po' come se, adesso, si volessero scaricare sul Codice Appalti, e sul settore che nelle PA si occupa di contratti pubblici (lavori, servizi e forniture), trent'anni di riforme solo parzialmente compiute nel settore pubblico e che avrebbero richiesto continuità nelle politiche sulla PA, sostituite piuttosto da alti e bassi di attenzione, da regole che hanno rimandato ad altre regole, dalla misurazione dei risultati impostata in maniera formale e burocratica, senza verifica su risultati di impatto.
Cosa non ha funzionato negli ultimi 30 anni?
Ma adesso c'è il PNRR e bisogna fare in fretta e bene, e anche un po' far vedere alla Commissione europea che l'Italia ci crede.
Resta che, forse, potrebbe risultare utile interrogarsi su cosa non abbia funzionato in questi trent'anni di riforme amministrative, anche nel settore degli appalti. Magari accorgendosi che la formazione è stata troppo rivolta alla conoscenza delle procedure, disattenta nei confronti dei contenuti dell'attività amministrativa e quindi asimmetrica e autoreferenziata rispetto ai quei risultati, di impatto e non di procedura, che avrebbero dovuto orientare l'azione di governo.
Si aggiunga che sembrerebbe mancare all'appello la possibilità di utilizzare una parte delle risorse dei quadri di spesa dei contratti pubblici per attivare dottorati di alta specializzazione(previsione del vigente Codice ripresa dal PNRR che ha finanziato i dottorati comunali), e che consentiva di articolare con le locali Università degli studi borse di ricerca-azione e percorsi per la formazione di aspiranti funzionari, per legare il mondo della ricerca a quello delle imprese e delle PA più portate all'innovazione e al cambiamento di paradigmi culturali.
La qualificazione delle stazioni appaltanti e la formazione degli addetti ai lavori
Ancora irrisolto il nodo della molteplicità delle stazioni appaltanti (trentamila sul territorio nazionale), circostanza che entra in contrasto con il dichiarato intento di disporre di centri altamente qualificati e che viene confermata dalla possibilità, per tutti i Comuni, di affidare direttamente, senza gara, lavori e servizi fino a 500mila euro.
Il Codice sarà in vigore nella primavera del 2023 quando si entrerà nel vivo delle gare per i progetti ammessi al PNRR, in un quadro di procedure avviate nel 2022 e che hanno raggiunto il valore di 51 miliardi (70% in più del 2021). Ma tenendo presente che questo ritmo ha interessato i concessionari di reti e di infrastrutture (FS) mentre, per i Comuni, i bandi hanno registrato performance pari a quelle del 2021(- 1%), con gare e aggiudicazioni tutte da fare(cfr Irpet Regione Toscana).
Resta infine il nodo della formazione necessaria per accompagnare il nuovo Codice puntando, più che sulle regole procedurali, sui contenuti di discrezionalità, tecnica e amministrativa: rigenerazione urbana, efficienza energetica e nuove figure contrattuali, misure per fronteggiare il riscaldamento climatico, tutela dell’ambiente entrata nella Costituzione, riduzione del consumo del suolo, rifunzionalizzazione di immobili abbandonati e che rappresentano la chiusura del cerchio di una PA orientata ai risultati. E con ciò agendo sul livello di preparazione culturale dei funzionari, e sulla loro integrità, tanto più necessaria in presenza di un ruolo sempre più accentuato che il Codice assegna alla discrezionalità.
Scelta, questa, che richiederà un supplemento di vigilanza interna e di cittadinanza attiva, sugli incarichi affidati (con rotazione?) ai responsabili di procedimento e ai loro curricula. E non dimenticando che il fenomeno della “cattura del regolatore” da parte di operatori economici, importanti e agguerriti, non riguarda solo il Parlamento europeo, ma rappresenta un rischio sempre in agguato nelle realtà storicamente permeabili, o che muovono ingenti risorse economiche.
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