Demolizione abusi edilizi: occhio ai contenuti dell'ordinanza
Il TAR Lazio si esprime sull'illegittimità di un'ordinanza emessa dal Comune per la demolizione di abusi edilizi non correttamente individuati
Il Titolo IV del d.P.R. n. 380 del 2001, cosiddetto Testo Unico Edilizia (TUE), definisce puntualmente il potere-dovere di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia da parte della pubblica amministrazione, le relative responsabilità e il sistema sanzionatorio. Ma, come spesso accade quando si parla di edilizia, l'ultima parola spetta ai tribunali.
Demolizione abusi edilizi: la nuova sentenza del TAR
Ed è quello che accade con la sentenza del TAR Lazio 7 marzo 2022, n. 2618 resa in riferimento alla richiesta di annullamento:
- di un'ordinanza di demolizione con cui ai sensi dell'art. 31 del TUE è stato ordinato alla ricorrente di provvedere a propria cura e spese alla demolizione e rimozione delle opere e installazioni eseguite presso un immobile identificato catastalmente e al ripristino dello stato originario dei luoghi, entro il termine di 90 giorni dalla data di notifica dell’ordinanza;
- del provvedimento di diniego del titolo edilizio abilitativo richiesto mediante S.C.I.A. per accertamento di conformità ex art. 37, comma 4, d.P.R. n. 380/2001.
I motivi del ricorso
Col primo motivo del ricorso, l'istante assume che, a differenza di quanto rilevato dall’amministrazione, la gran parte del fabbricato sarebbe del tutto legittima sotto il profilo urbanistico ed edilizio in quanto realizzata tra il 1959 e il 1963. Lo stesso con riferimento ai servizi igienici, alla cucina e alla piattaforma di collegamento tra i due blocchi, opere che risalirebbero al 1963 (come accertato dalla Polizia locale).
Ciò sarebbe confermato dalla perizia prodotta in giudizio secondo cui già nel 1963 sarebbe stato presente un nucleo edificato, in quanto oggetto dell’ampliamento contestato con un verbale elevato nel febbraio 1963, e la piattaforma lignea con passerella di collegamento, poi allargata secondo quanto attestato dal secondo verbale del marzo 1963; di qui, un’“implicita” attestazione di regolarità del “nucleo” originario e della piattaforma/passerella, escluse dalle contestazioni perché presumibilmente riconosciute come realizzate prima del 1960.
Quanto agli ampliamenti successivi, rileverebbe un'autorizzazione edilizia con cui il Comune avrebbe accolto la richiesta volta alla realizzazione di “interventi di manutenzione straordinaria” (riguardanti principalmente la salubrità dei locali e consistenti in “rimozione e sostituzione della copertura [ondulato in eternit], revisione impianti, demolizione e rifacimento di pavimenti e rivestimenti, sostituzione infissi e realizzazione di controsoffittature in cartongesso”) “in quanto risulta compatibile con la normativa vigente P.R.G.”.
Il Comune avrebbe dunque riconosciuto in modo esplicito la “legittimità” dell’immobile alla data del 14.2.1995.
A ciò si aggiungerebbero le risultanze della relazione di parte, evidenziante la sostanziale sovrapponibilità dello stato attuale della struttura rispetto a quello del 1995, a eccezione del “pergolato in legno”, che, costituendo un’opera “facilmente amovibile”, rientrerebbe nel regime di edilizia libera ex art. 6 d.P.R. n. 380/2001.
Ne discenderebbe l’incomprensibilità del rilievo di abusività del fabbricato e del consequenziale ordine di integrale demolizione, non potendo nemmeno rilevare in contrario il diniego di condono del 2001 (non potendosi attribuire efficacia retroattiva a tale provvedimento, peraltro oggetto di impugnativa).
Si tratterebbe, in conclusione, di una struttura del tutto legittima dal punto di vista edilizio, mentre eventuali vizi relativi a profili di natura paesaggistica sarebbero suscettibili di sanatoria mediante istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004 (per la fattispecie di “manutenzione straordinaria e risanamento conservativo”).
Secondo il ricorrente, questa opzione consentirebbe di contemperare l’interesse pubblico al rispetto della normativa edilizia e urbanistica e quello della ricorrente al mantenimento della struttura, dovendosi anche avere riguardo al lungo tempo trascorso dall’edificazione e dagli ampliamenti riscontrati sul manufatto e all’inerzia dell’amministrazione che, a fronte del rilascio dell’autorizzazione edilizia del 1995 (e di altri provvedimenti abilitativi concernenti l’attività di somministrazione di alimenti e bevande effettuata da oltre un ventennio), avrebbe ingenerato un legittimo affidamento in ordine alla regolarità urbanistico-edilizia del fabbricato.
Con il secondo mezzo la ricorrente denuncia il difetto di motivazione dell’ordinanza, carente della “necessaria indicazione degli abusi asseritamente contestati e delle porzioni del fabbricato di cui si intima la demolizione”; ciò alla luce dell’indirizzo secondo cui i provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi dovrebbero contenere quantomeno l’analitica descrizione e la rappresentazione delle opere realizzate (specie nel caso di provvedimenti demolitori intervenuti dopo una prolungata inerzia dell’amministrazione).
Nella specie, l’ordinanza impugnata si limiterebbe a riportare l’elenco dei provvedimenti comunali relativi all’immobile sin dal 1963, peraltro integranti prova della preesistenza del manufatto.
L'identificazione dell'abuso e l'ordine di demolizione
Il TAR ha immediatamente chiarito che in linea generale un ordine di demolizione non può prescindere dalla compiuta identificazione dell’abuso che andrebbe rimosso, perché, in caso contrario, ne resterebbe indeterminato l’oggetto.
Nel caso di specie il provvedimento impugnato è affetto da tali illegittimità in quanto risulta del tutto incerto quale sia l’oggetto della demolizione prescritta, né sono stati adeguatamente considerati i precedenti titoli edilizi concernenti il fabbricato.
Pure con riferimento al pergolato in legno, poi, non risulta chiaro se si tratti di opera rientrante o non in quelle riconosciute come provvisorie dal perito d’ufficio, risultando anche per questa parte configurato il denunciato deficit motivazionale.
In questa prospettiva, non rileva il diniego dell’istanza di condono del 2001, atteso che l’abusività di un intervento edilizio discende non già dalla circostanza che esso sia stato oggetto di un’istanza di sanatoria poi respinta, ma (direttamente) dalla sua non conformità rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia di riferimento.
Accertata illegittimità dell’ordinanza impugnata per difetto di istruttoria e di motivazione, il Consiglio di Stato ha confermato che i suoi effetti si riverberano necessariamente anche sul provvedimento di diniego di SCIA.
In conclusione, il ricorso e il ricorso per motivi aggiunti sono fondati e sono stati accolti dal TAR che ha annullato gli atti impugnati.
Documenti Allegati
Sentenza TAR Lazio 7 marzo 2022, n. 2618IL NOTIZIOMETRO