Formazione contratti pubblici e requisiti SNA: chi sono gli esperti?
Dalla Scuola Nazionale dell’Amministrazione i criteri oggettivi e soggettivi della formazione valida ai fini della qualificazione delle stazioni appaltanti. Va tutto bene?
La formazione come i panettoni di Stato? Creare un sistema di accreditamento per la formazione dei dipendenti pubblici operanti presso le stazioni appaltanti era una necessità irrinunciabile. L’applicazione delle regole riguardanti gli appalti pubblici è, come noto, molto complessa, sicché prevedere un sistema di formazione ed aggiornamento continuo è imprescindibile.
Il sistema di formazione nei contratti pubblici
Lo scopo è elevare e tenere alto il livello di conoscenze ed operatività e anche creare un linguaggio comune, in modo da garantire agli operatori economici una relazione con un sistema coerente delle PA quali stazioni appaltanti.
La formazione, e non solo nel campo degli appalti pubblici, non può essere lasciata all’improvvisazione e alla buona volontà degli enti (quest’ultima, poi, spesso è largamente assente), ma va imposta come obbligazione del datore di lavoro pubblico.
È corretto anche disporre linee generali sulla struttura dei corsi, il loro livello e la loro composizione: fa parte essenziale degli accreditamenti, infatti, stabilire i livelli essenziali delle prestazioni cui tendere. Non può bastare la certificazione di aver partecipato ad un corso: è opportuno che gli addetti alla gestione degli appalti delle PA ottengano le certificazioni secondo il sistema di accreditamento riconosciuto.
Fin qui, gli elementi certamente positivi del decreto di accreditamento disposto dalla Scuola Nazionale di Amministrazione.
I punti di debolezza
Molti, tuttavia, sono i punti dolenti. Il primo: non si comprende se si giungerà mai alla produzione di un apparato coordinato di piani di studio, disaggregati in specifiche materie ed argomenti ed oggetti di trattazione, di natura standard, elemento che oggettivamente assicura una diffusione capillare dell’omogeneità della formazione. Nel decreto non si trova traccia alcuna di questa modalità che definiremmo indispensabile.
In secondo luogo, appare poco chiara la definizione di “esperti” abilitati ad erogar la formazione. Il decreto parla, in primo luogo, di docenti universitari. Non c’è dubbio che i docenti sono in prima fila da considerare ai fini di un’attività di formazione. C’è un però, tuttavia, grande quanto una casa: argomenti, metodi e didattica dei docenti universitari sono per loro natura conformi al sistema universitario. Che, purtroppo, in Italia è noto per rivelarsi ben lontano dal necessario tasso di attenzione all’esperienza pratica di ogni giorno.
Parlare di piattaforme, di impegno di spesa, di incarico di fase, di certificato di pagamento, di iscrizione di riserve, di verifiche sul rispetto della legge 68/1999, di acquisizione del Cig, di determina a contrattare, di Pcc, senza aver mai visto o gestito queste attività, è oggettivamente difficile.
Anche ai docenti universitari occorrerebbe richiedere quell’esperienza sul campo almeno quinquennale prevista dal decreto per gli altri “esperti”. Ma questi, a loro volta, non appaiono chiaramente e correttamente individuati. Ok per il possesso di laurea magistrale o equipollente, e ci mancherebbe; ma cosa si intende per “elevata competenza ed esperienza almeno quinquennale”? Lo stabilisce ciascun soggetto accreditato secondo la propria sensibilità? Oppure, occorrerebbero indicatori che disaggreghino e specifichino tali concetti?
I soggetti accreditabili
Infine, sui soggetti accreditabili. È veramente singolare la scelta della Sna. Guardiamo i fatti. Per un verso, con una scelta totalmente debole e criticabile, il codice dei contratti ha nella sostanza privatizzato l’ecosistema digitale degli appalti (per usare i paroloni un po’ troppo spesso vanagloriosi che ricorrono nel codice e nei commenti), facendo sì che la digitalizzazioni passi per il tramite di piattaforme accreditate digitali, prodotte e gestite da soggetti privati, caratterizzati dall’ovvio scopo di lucro.
Molto meglio sarebbe stato impiegare il lungo tempo intercorso tra il 2018 e oggi perché si realizzasse una piattaforma digitale unica e completa di natura interamente pubblica. C’erano tutte le possibilità, visto il gran lavoro compiuto dalla Consip. Ai privati sarebbe stato opportuno consentire di sviluppare sistemi accessori ed ausiliari, o anche concorrenziali – se con migliorie – rispetto a quello pubblico.
Non è andata così. Ed è una delle ragioni, non certo l’unica, dell’estrema difficoltà di avvio del sistema.
Ora, per la creazione del complesso reticolo di aggancio tra piattaforme private e banca dati, Anac, Agid, altri soggetti pubblici, si sono continuamente interfacciati con i fornitori privati, nel tentativo di analizzare processi, fasi, strumenti, comandi, iter, metodi.
La digitalizzazione è, comprensibilmente, un elemento unico, necessariamente connesso e fortemente aggregato ai processi gestionali, che non possono non essere oggetto di qualsiasi formazione, qualunque sia il suo livello, qualunque sia la composizione del suo piano di studio.
La formazione e la digitalizzazione
Singolarmente, il decreto però taglia fuori queste competenze e proprio per la formazione limita l’accreditamento a soli soggetti pubblici o parapubblici o privati, ma a condizione che siano privi di scopo di lucro.
Sfugge completamente la ratio di simile decisione. L’accreditamento è uno tra i tipici strumenti della cosiddetta “sussidiarietà” orizzontale: laddove un soggetto privato si riveli in grado di erogare servizi con i medesimi requisiti di qualità del pubblico, secondo l’articolo 118 della Costituzione può essere chiamato a sussidiare il sistema.
Impedendo ai soggetti che da decenni operano nel campo della formazione della PA pur con scopo di lucro, si rinuncia ad una ricchezza di esperienza e relazioni formidabile.
Contestualmente, si apre la stura, invece, alla creazione di società pubblico-private tra il farlocco e il sussidiato (non la sussidiarietà virtuosa, ma i sussidi pubblici da “Sussidistan” di aziende prive di competitività imprenditoriale), con il pericolo del mercato delle vacche degli accreditamenti, nonché dell’ulteriore creazione di scatole cinesi di soggetti operanti nella formazione “profit”, intenti a costituire spezzono collegati di natura “non profit”, con problemi enormi, poi, di controllo di interessenze e compartecipazioni.
Ci si chiede, semplicemente: perché? Perché le procedure digitali sono state esposte al mercato, mentre la formazione, molto più facilmente determinabile nella qualità e, dunque, guidabile, si affida ad un oligopolio para pubblicistico, con tutti i rischi ben noti? La formazione rischia di diventare il nuovo approdo dello Stato che “fa i panettoni”?
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