L’appalto integrato è morto: viva l’appalto integrato!
Parlando di appalto integrato, ovvero dell’appalto di progettazione esecutiva e costruzione affidato ad un unico appaltatore, viene in mente una recente inte...
Parlando di appalto integrato, ovvero dell’appalto di progettazione esecutiva e costruzione affidato ad un unico appaltatore, viene in mente una recente intervista rilasciata dall’allora presidente dell’Ance, Paolo Buzzetti, il quale dichiarava che “si può abbandonare l’appalto integrato complesso, fatto sul preliminare. Ma assolutamente non bisogna ricorrere a soluzioni che dicano addio anche all’appalto integrato sul definitivo che serve soprattutto in chiave europea. L’UE non prevede limitazioni, anzi le imprese straniere ne fanno un grande uso. Se dovessimo limitarlo, un domani potremmo trovarci con problemi di concorrenza a livello europeo per le nostre imprese”. Correva l’anno 2014. Appena prima l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, forniture e servizi, oggi riassorbita nell’ANAC, attraverso la relazione al parlamento dell’anno 2011 affermava che l’appalto di progettazione esecutiva e costruzione presentava, di media, il ricorso alla variante in corso d’opera in circa il 40% dei casi, contro il 50% nel caso di appalto di sola costruzione. Uno studio OICE (OICE, 2007, “Procedure e tempi di esecuzione delle grandi opere nei paesi industrializzati studio OICE, Analisi comparata delle procedure più efficaci per la realizzazione delle opere pubbliche in Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna”), di comparazione tra la prassi nell’esecuzione di grandi opere in quattro degli stati principali dell’Unione Europea (Italia esclusa), identifica l’appalto integrato (design & build) quale formula contrattuale con il maggior incremento nell’ultimo periodo, oltre il partenariato pubblico-privato, e maggiormente diffusa nel Regno Unito, in Olanda e nei paesi scandinavi. Sempre lo studio in questione, definisce l’appalto integrato quale principale formula per attuare quel nuovo approccio collaborativo, ispirato alla collaborazione tra le parti anziché alla contrapposizione, cui poter veicolare la riduzione della spesa pubblica e l’accrescimento dell’efficienza dell’azione pubblica, a vantaggio della competitività.
Ed è proprio la competitività che ha mosso il legislatore comunitario, già dal libro verde sugli appalti pubblici, preludio ragionato e motivato per l’adozione delle nuove Direttive Comunitarie, a rivisitare drasticamente le proprie norme in materia di appalti e concessioni, lasciando comunque immodificato – almeno a livello comunitario – la formula dell’appalto di progettazione e costruzione.
Con tali premesse, non ci si poteva attendere – nuovamente - una risposta del segno opposto da parte del legislatore nazionale nella stesura del nuovo codice dei contratti. Eppure così sembrerebbe. Il ripresentarsi delle stesse previsioni della legge Merloni del ’94, e del sostanziale contrasto con le direttive comunitarie, di cui si parlerà oltre, di oggi come di allora, fa sorgere diversi quesiti. Il primo è di merito, ovvero se il legislatore nazionale ritenga, e sulla scorta di quali dati visto che quelli di cui sopra parrebbero dare indicazione contraria, che l’appalto di sola costruzione sia preferibile all’appalto di progettazione e costruzione, per favorire la competitività del sistema paese, e quindi per garantire “il rispetto dei tempi e dei costi previsti”.
A tale riguardo non si ritiene, seppur non si possa escludere, che il Legislatore, per fondare tale impostazione, abbia potuto adottare i dati riferiti alla Legge Obiettivo (Il riferimento è all’ottavo rapporto sull'attuazione della "legge obiettivo", legge n. 443 del 2001, predisposto dal Servizio Studi della Camera in collaborazione con l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, AVCP. Lo stesso rapporto puntualizza più volte, cit. “... Quindi - pur con le dovute cautele derivanti dalla ridotta entità̀ numerica di alcune delle tipologie prese in esame - con riferimento ai soli lavori dichiarati ...” la scarso campione analizzato e, quindi, la validità statistica del dato. Inspiegabilmente, ma se ne comprende il fine, la stessa analisi è ripresa dal Centro Studi del Consiglio Nazionale degli Ingegneri, N. 152 / 2015, titolato “Opere pubbliche: criticità̀ e prospettive nello scenario europeo studio del Centro” in cui, senza presentare ulteriori dati e presentare ulteriori analisi di fino, viene demonizzato l’appalto di progettazione e costruzione): in primo luogo perché gli stessi, a differenza di quelli sopra citati e come precisato dalla stessa Autorità, si riferiscono ad un campione eccessivamente ridotto e, pertanto, non si possono ritenere statisticamente validi. Non va inoltre dimenticato che la Legge Obiettivo si riferisce a particolari interventi, soprattutto infrastrutturali, che non possono di certo determinare un campione omogeno su cui basare una seria analisi prodromica all’adozione di un tale indirizzo politico. Di contro le precedenti relazioni dell’Autorità indagavano un campione molto più amplio ed eterogeneo. Oltretutto va precisato che suddetti dati, laddove trattano l’appalto integrato, sono contraddittori in quanto sembrerebbero confermare che, per numero di varianti, l’appalto di progettazione e costruzione, è di molto più vantaggioso dell’appalto di sola costruzione, con una riduzione del numero di varianti in corso d’opera che, nel primo caso, si approssima al 50%. La situazione si ribalterebbe (ma in questo caso i dati non sono chiari e il condizionale è quindi d’obbligo) se il fenomeno viene analizzato dal punto di vista dell’importanza economica delle varianti.
La motivazione sottesa alla decisione di tornare a vietare il ricorso all’appalto integrato è quindi da ricercarsi altrove e, affermato dallo stesso Consiglio di Stato, l’ambito è quello prettamente politico.
La tesi secondo la quale l’appalto di sola costruzione fornisca maggiori garanzie circa “il rispetto dei tempi e dei costi previsti”, si ritiene sia stata abbondantemente disconosciuta dalla stessa ANAC, allora AVCP, che ha dichiarato (si leggano a riguardo le relazioni al parlamento per gli anni 2011, 2012 e 2013) come il precedente quadro normativo (rif. D.Lgs. 163/2006), fondato sul concetto di progetto esecutivo perfetto, abbia dimostrato tutte le sue carenze difronte a dati che confermano una probabilità di ricorso alla variante in corso d’opera pari al 73,4% dei casi. Il secondo quesito è di carattere prettamente tecnico-giuridico e consiste nell’appurare se l’apparente divieto di ricorso alla formula dell’appalto di progettazione e costruzione sia, nei fatti, tale. Per fare ciò è quindi necessario procedere con una disamina del testo del nuovo codice e della relativa “legge delega”, analizzando il processo di gestazione che ha portato, lo scorso 19 aprile alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del nuovo codice dei contratti.
Con la legge n. 11 del 28 gennaio 2016 è stata conferita al Governo la delega per il recepimento delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE, indicando quali fossero i “principi e criteri direttivi specifici” da rispettare.
Relativamente all’aspetto dell’appalto integrato, l’art. 1, lett. oo), ha disposto che il recepimento delle suddette direttive dovesse avvenire “limitando radicalmente il ricorso all’appalto integrato, tenendo conto in particolare del contenuto innovativo o tecnologico delle opere oggetto dell’appalto o della concessione in rapporto al valore complessivo dei lavori e prevedendo di norma la messa a gara del progetto esecutivo”.
Lo schema di nuovo codice approvata lo scorso 3 marzo dal Consiglio dei Ministri, prevedeva due punti distinti dove si limitava il ricorso all’appalto integrato: il comma 8 dell’art. 23 e il comma 1 dell’art. 59.
Anche alla luce del parere 855 dell’1 aprile 2016, formulato dal Consiglio di Stato sullo schema di nuovo codice, e in considerazione della palese violazione della legge delega perpetrata dal Governo, la versione finale approvata il 15 aprile dal Consiglio dei Ministri, prevede una riformulazione delle norme che disciplinano l’appalto integrato, apparentemente più restrittiva ma certamente più chiara della precedente versione.
Nel Decreto Legislativo del 18 aprile 2016 n. 50, il nuovo codice dei contratti pubblici, sono presenti diverse previsioni dedicate all’appalto integrato.
In primo luogo, l’art. 3, lett. ll), fornisce la definizione di “appalti pubblici di lavori”, che è la seguente:
“i contratti stipulati per iscritto tra una o più stazioni appaltanti e uno o più operatori economici, aventi per oggetto:
1)L’esecuzione o la progettazione esecutiva e l’esecuzione, di lavori relativi a una delle attività di cui all’allegato I;
2)L’esecuzione, oppure la progettazione esecutiva e l’esecuzione di un’opera;
3)La realizzazione, con qualsiasi mezzo, di un’opera corrispondente alle esigenze specificate dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore che esercita un’influenza determinante sul tipo o sulla progettazione dell’opera;”
All’art. 28, comma 13, è previsto che “Le stazioni appaltanti ricorrono alle procedure di cui al presente articolo solo nel caso in cui l’elemento tecnologico ed innovativo delle opere oggetto dell’appalto sia nettamente prevalente rispetto all’importo complessivo dei lavori, prevedendo la messa a gara del progetto esecutivo.”
All’art. 59, comma 1, è previsto che “Gli appalti relativi ai lavori sono affidati, ponendo a base di gara il progetto esecutivo, il cui contenuto, come definito dall’articolo 23, comma 8, garantisce la rispondenza dell’opera ai requisiti di qualità predeterminati e il rispetto dei tempi e dei costi previsti. E’ vietato il ricorso all’affidamento congiunto della progettazione e dell’esecuzione di lavori ad esclusione dei casi di affidamento a contraente generale, finanza di progetto, affidamento in concessione, partenariato pubblico privato, contratto di disponibilità”
All’art. 95, c. 4, è previsto che per gli appalti di lavori di importo pari o inferiore a 1.000.000 di euro può essere utilizzato il criterio del minor prezzo, “tenuto conto che la rispondenza ai requisiti di qualità è garantita dall’obbligo che la procedura di gara avvenga sulla base del progetto esecutivo”.
All’art. 106, comma, 9, è previsto che “Nel caso di appalti aventi ad oggetto la progettazione esecutiva e l’esecuzione di lavori, l’appaltatore risponde dei ritardi e degli oneri conseguenti alla necessità di introdurre varianti in corso d’opera a causa di carenze del progetto esecutivo.”
Il quadro normativo sopra esposto suscita in via immediata una domanda: “ma l’appalto di lavori avente ad oggetto la progettazione e costruzione è previsto dal legislatore nazionale, e se si, in quale ipotesi?”.
La domanda nasce dalla constatazione del fatto che il legislatore fornisce all’art. 2 una definizione, quindi quello che dovrebbe essere il significato da dare in modo univoco al termine “appalto di lavori”, che contempla l’appalto di progettazione e costruzione, per poi prevedere all’art. 28 comma 13 che le stazioni appaltanti possono ricorrere all’appalto misto solamente nel caso in cui “l’elemento tecnologico e innovativo” delle opere da realizzare sia “nettamente prevalente” all’interno dell’importo complessivo dei lavori; il ricorso all’appalto misto, sempre secondo il suddetto art. 28 comma 13, viene realizzato “prevedendo la messa a gara del progetto esecutivo”.
Inoltre, l’art. 59 prevede un generale divieto di affidamento congiunto della progettazione e costruzione, fatte salve le ipotesi elencate nella stessa norma.
Orbene, il primo luogo si deve sgombrare il campo dai dubbi che può provocare l’infelice espressione dell’art. 28 comma 13 “messa a gara del progetto esecutivo”, che non può significare altro che “affidamento in gara” del progetto esecutivo.
Se non fosse questo il significato da attribuire all’anzidetta espressione non si capirebbe il senso della previsione in esame, visto che l’art. 59 già detta una disposizione generale per l’appalto di progettazione e costruzione che impone di porre a base di gara il progetto esecutivo.
Al tempo stesso una tale interpretazione consente di dare un senso anche alla previsione dell’art. 106 comma 9.
Ciò in quanto la suddetta previsione non si applica a quelle fattispecie per le quali l’art. 59 comma 1 prevede la possibilità di ricorrere all’affidamento congiunto della progettazione e esecuzione, ossia il contraente generale, la finanza di progetto, l’affidamento in concessione, il partenariato pubblico privato ed il contratto di disponibilità, questo in ragione delle norme che l’art. 164 (per le concessioni) e l’art. 179 (per il partenariato pubblico privato, contratto di disponibilità, finanza di progetto, contraente generale) individuano come applicabili a dette tipologie contrattuali, norme fra le quali non rientra l’art. 106.
Ne consegue che l’art. 106, nel prevedere la responsabilità dell’appaltatore che ha predisposto la progettazione esecutiva per le eventuali carenze di essa, non può che riferirsi alle ipotesi di cui all’art. 28 comma 13.
Da quanto sopra esposto discende che: l’affidamento congiunto della progettazione ed esecuzione di lavori è ammesso nel nuovo codice dei contratti pubblici solamente qualora l’elemento tecnologico ed innovativo delle opere sia nettamente prevalente nell’ambito dell’importo dei lavori da svolgere ed inoltre nei casi elencati all’articolo 59 comma 1, fra i quali però è stata dimenticata la locazione finanziaria di opere pubbliche di cui all’art. 187, per la quale è espressamente prevista, al comma 6 del citato art. 187, la possibilità di affidare all’operatore economico anche la progettazione.
L’insieme delle norme sopra riportate, dal cui insieme nasce il disposto sopra sinteticamente illustrato, suscita però notevoli perplessità riguardo alla sua compatibilità con la normativa comunitaria, di cui il nuovo codice dei contratti pubblici dovrebbe costituire il recepimento, ed anche di costituzionalità.
Per quanto riguarda le perplessità relative alla costituzionalità delle norme anzidette, è necessario considerare che l’art. 1, lett. oo), della “legge delega” ha fissato come criterio direttivo a cui il Governo avrebbe dovuto attenersi nel disciplinare l’appalto di progettazione e costruzione quello di ridurre il campo di applicazione di tale tipologia di affidamento, “tenendo conto in particolare del contenuto innovativo o tecnologico delle opere oggetto dell’appalto o della concessione in rapporto al valore complessivo dei lavori”.
Il tenore letterale della delega conferita al Governo non lascia dubbi sul fatto che essa preveda una riduzione dei casi in cui sia possibile affidare congiuntamente la progettazione e realizzazione di lavori, lasciando però la possibilità di ricorrere all’appalto integrato nei casi in cui l’opera da realizzare contempli lavori dal “contenuto innovativo o tecnologico” che abbiano una particolare incidenza sul “valore complessivo dei lavori”.
Ebbene, la norma che dovrebbe costituire l’applicazione del criterio direttivo sembrerebbe essere il citato art. 28 comma 13.
Tale disposizione però sembra semplicemente la riscrittura del criterio direttivo, senza alcun tipo di specificazione o di individuazione del peso economico che il “contenuto innovativo o tecnologico” deve possedere nell’ambito dell’intero appalto.
In buona sostanza, il criterio direttivo in discussione non è stato rispettato ma è stato semplicemente ricopiato, in tal modo violando apertamente la “delega” conferita.
Anzi, a ben vedere, vi è anche una violazione sostanziale del criterio direttivo, in quanto esso prevedeva di tenere conto del contenuto innovativo “o” tecnologico, in tal modo imponendo al Governo di prevedere la possibilità di affidare un appalto di progettazione e costruzione qualora fosse presente uno dei due elementi: o quello “innovativo” o quello “tecnologico”.
Invece, il citato art. 28 comma 13 prevede che possa essere affidato un appalto integrato solamente qualora sia presente un elemento tecnologico “ed” innovativo, quindi solamente nel caso in cui sia presente un elemento che possieda entrambe le due anzidette caratteristiche, in tal modo andando a ridurre il campo di applicazione rispetto alla previsione della “delega”.
A quanto sopra si aggiunge un ulteriore dubbio indotto proprio dalla formulazione infelice del comma in questione e dalla comprensione degli aggettivi qualificativi “innovativo” e “tecnologico”. Quest’ultimo, nell’ambito normativo edilizio, è definito dalla norma UNI 8290-1 che individua come sistema tecnologico “l’insieme strutturato delle classi di unità tecnologiche o di elementi tecnici” e, quindi, di tutti gli elementi, strutturali, edili e impiantistici, costituenti l’edificio.
Il termine “innovativo”, ovvero “rendere nuovo”, è invece più comunemente impiegato per definire elementi astratti quali i processi (di innovazione), i programmi e così via. Se associato all’edilizia o all’ingegneria, può essere rapportato all’impiego di tecnologie, anche non costruttive bensì di processo, necessarie per realizzare un’opera quale ad esempio può essere il ricorso ai sistemi di Building Information Modelling (BIM).
Tali aggettivi sono associati al termine “elemento” e, pertanto, si può presumere che il legislatore si stia riferendo all’elemento tecnico, così come definito dalla norma UNI 8290-1, innovativo rispetto una situazione pregressa oppure rispetto la prassi. A titolo esemplificativo la ristrutturazione di una facciata decadente e ammalorata con l’impiego di un bio intonaco, quindi di un elemento tecnico innovativo rispetto i tradizionali, e comunemente usati, intonaci cementizi, potrebbe soddisfare il requisito “tecnologico ed innovativo” previsto dalla norma. E’ evidente come siffatto comma si presti a interpretazioni delle più varie in barba alla certezza del diritto più volte invocata durante la stesura del nuovo codice.
Quello che però suscita le maggiori perplessità è il profilo relativo alla compatibilità con il diritto comunitario della riduzione dei casi in cui poter ricorrere all’appalto di progettazione ed esecuzione. Tale profilo è quello relativo a se lo Stato Italiano, nel recepire le direttive comunitarie del 2014, avesse la possibilità di sottrarre o limitare la possibilità per le stazioni appaltanti di ricorrere all’appalto di progettazione e costruzione.
Ciò in quanto l’art. 2, paragrafo 1, n. 6 della Direttiva 2014/24/UE fornisce la seguente definizione di “appalti pubblici di lavori”:
“appalti pubblici aventi per oggetto una delle seguenti azioni:
a)l’esecuzione, o la progettazione e l’esecuzione, di lavori relativi a una delle attività di cui all’allegato II;
b) l’esecuzione, oppure la progettazione e l’esecuzione di un’opera; oppure
c)la realizzazione, con qualsiasi mezzo, di un’opera corrispondente alle esigenze specificate dall’amministrazione aggiudicatrice che esercita un’influenza determinante sul tipo o sulla progettazione dell’opera;”
La definizione sopra riportata, peraltro sostanzialmente identica a quella contenuta nell’art. 3, lett. ll), del nuovo codice, è chiara nell’individuare l’oggetto degli “appalti pubblici di lavori” sia nella sola esecuzione che nella progettazione ed esecuzione dei lavori.
La definizione di “appalti pubblici di lavori” fornita dalla Direttiva deve essere letta alla luce del “considerando” n. 8 della Direttiva, il quale così recita: “vista la diversità degli appalti pubblici di lavori, è opportuno che le amministrazioni aggiudicatrici possano prevedere sia l’aggiudicazione separata che l’aggiudicazione congiunta di appalti per la progettazione e l’esecuzione di lavori. La presente direttiva non è intesa a prescrivere un’aggiudicazione separata o congiunta degli appalti.”
Se si tiene conto del fatto che i “considerando” hanno una valenza interpretativa delle norme della Direttiva, in quanto ne esprimono in un certo senso la “ratio”, risulta evidente che il citato art. 2 nel prevedere che gli appalti di lavori possano avere ad oggetto sia la sola esecuzione che la progettazione ed esecuzione, ha voluto lasciare le amministrazioni aggiudicatrici (e non gli Stati membri in sede di recepimento) libere di scegliere, fra l’appalto di sola esecuzione o di progettazione ed esecuzione, quale fosse lo strumento più opportuno per perseguire l’interesse pubblico, in ragione delle diverse peculiarità che caratterizzano il singolo appalto di lavori da realizzare.
A ciò deve aggiungersi che il citato art. 2 è una norma precisa ed incondizionata né lascia un margine di discrezionalità nel recepimento o meno di essa agli Stati membri, inoltre nessuna altra norma della Direttiva contiene limitazioni ad essa o pone delle condizioni alla sua applicabilità.
Pertanto, una norma nazionale che impone l’utilizzo dell’appalto di sola esecuzione, a fronte di una definizione comunitaria che si esprime in termini di assoluta facoltà di scelta in capo alle stazioni appaltanti fra appalto di sola esecuzione ed appalto di progettazione ed esecuzione, non può che essere considerata in contrasto con la definizione comunitaria.
Una volta giunti alla conclusione sopra esposta, la norma nazionale che limita la possibilità per le stazioni appaltanti di scegliere se affidare un appalto di progettazione ed esecuzione o di sola esecuzione risulta disapplicabile.
Infatti, il principio del primato e della prevalenza del diritto comunitario, e del conseguente obbligo di disapplicazione della legislazione di diritto interno da esso difforme, è un principio accolto in modo unanime dalla giurisprudenza, in primis della Corte di Giustizia ed ormai consolidatasi in tutti gli ordini e gradi delle giurisdizioni nazionali.
Tale principio sancisce che le disposizioni della direttiva che risultino dal punto di vista sostanziale incondizionate e sufficientemente precise, si applicano all’interno degli Stati membri ai soggetti ai quali esse si rivolgono; ciò a prescindere dal fatto che gli Stati abbiano recepito tempestivamente la direttiva nel diritto nazionale o che l’abbiano recepita in tempo utile ma in modo inadeguato e/o difforme (cfr. Corte di Giustizia CE 4 marzo 1999 in causa C-258/97; CGCE 16 settembre 1999 in causa C-27/98; Consiglio di Stato, sez. IV, 6 maggio 1992 n. 481).
Infatti, l’ormai universalmente riconosciuto principio della prevalenza della normativa comunitaria su quella nazionale ha portato la Corte di Giustizia ad affermare che “Il giudice nazionale è tenuto a dare a una disposizione di diritto interno, avvalendosi per intero del margine di discrezionalità consentitogli dal suo ordinamento nazionale, un’interpretazione ed un’applicazione conformi alle prescrizioni del diritto comunitario e, qualora siffatta interpretazione conforme non sia possibile, a disapplicare ogni disposizione di diritto interno contraria a tali prescrizioni” (Corte di Giustizia, sez. III, 28 dicembre 2010, in C-406/08, nonché Corte Giustizia, sez. IV, 18 dicembre 2007, in C-357/06).
Secondo la terminologia adottata dalla Corte di Giustizia, le disposizioni della direttiva incondizionate e sufficientemente precise sono idonee a conferire direttamente ai soggetti ai quali espressamente si riferiscono “diritti che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare”.
Con particolare riferimento alle direttive in materia di appalti, tale espressione deve tradursi nel senso che le amministrazioni aggiudicatrici ivi indicate sono destinatarie di poteri per l’esercizio di attività discrezionale, direttamente conferiti loro dal diritto comunitario senza che lo Stato membro possa porvi alcun limite.
Per comprendere appieno la portata ed il significato del principio sopra esposto si riporta una pronuncia con la quale il Giudice comunitario ha sancito che: “L'applicabilità diretta del diritto comunitario significa che le sue norme devono esplicare pienamente i loro effetti, in maniera uniforme, in tutti gli Stati membri, a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la durata della loro validità. Le disposizioni direttamente applicabili sono fonte immediata di diritti ed obblighi per tutti coloro ch'esse riguardano, cioè sia gli Stati membri che i singoli soggetti di rapporti giuridici disciplinati dal diritto comunitario. Questo effetto riguarda anche tutti i giudici che, aditi nell'ambito della loro competenza, hanno il compito, in quanto organi di uno Stato membro, di tutelare i diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitario. In forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del trattato e gli atti delle istituzioni [tra cui le direttive, n.d.r.], qualora siano direttamente applicabili, hanno l'effetto, nei loro rapporti col diritto interno nazionale, non solo di rendere "ipso jure" inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante delle leggi nazionali preesistenti, ma anche, in quanto dette disposizioni ed atti fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell'ordinamento giuridico vigente nel territorio degli Stati membri, di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili col diritto comunitario; equivarrebbe infatti a negare, sotto questo aspetto, il carattere reale di impegni incondizionatamente ed irrevocabilmente assunto, in forza del trattato, dagli Stati membri, mettendo così in pericolo le basi stesse della Comunità. Il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell'ambito della propria competenza, le norme di diritto comunitario, ha l'obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all'occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legge nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”.
Pertanto, al fine di garantire il rispetto e la piena efficacia del diritto comunitario degli appalti pubblici su tutto il territorio dell’Unione Europea, qualsiasi normativa di diritto nazionale che si ponga in contrasto o in difformità, sia con riferimento alla lettera della norma comunitaria sia alla sola ratio della stessa, deve essere disapplicata dall’operatore del diritto.
Sulla conformità alla normativa comunitaria della sottrazione alle stazioni appaltanti della facoltà di scelta fra appalto di sola costruzione ed appalto di progettazione e costruzione si è espresso anche il Consiglio di Stato nel parere emesso in relazione allo schema di decreto legislativo recante il nuovo codice.
In particolare il Consiglio di Stato, nel commentare l’art. 194, ha affermato quanto segue:
“Inoltre la lett. oo) della delega, con previsione di ambito tendenzialmente generale, pone il principio dell’esclusione dell’affidamento dei lavori sulla base della sola progettazione di livello preliminare.
Si tratta di una scelta del legislatore attinente al merito politico.
Sul piano della legittimità comunitaria, anzitutto, è noto come le direttive comunitarie non pongano limiti all’affidamento contestuale di progettazione e di esecuzione a uno stesso soggetto”.
L’affermazione del Consiglio di Stato sopra testualmente riportata non sembra lasciare dubbi sul fatto che anche il supremo organo della giustizia amministrativa abbia ravvisato un profilo di non conformità delle norme in esame alla normativa comunitaria.
Pertanto, si confida che il legislatore nazionale si ravveda prontamente e provveda al più presto ad eliminare le norme che limitano il ricorso all’appalto di progettazione ed esecuzione, evitando il permanere di una norma in contrasto con il diritto comunitario e soprattutto evitando di ripetere gli errori commessi nel passato con la Legge Merloni, la quale ha da subito vietato l’appalto di progettazione e costruzione per poi gradualmente riabilitarlo, individuandolo come strumento principale per l’attuazione della Legge obiettivo e, infine, per reintegrarlo definitivamente, e conformemente alle Direttive Comunitarie allora vigenti, con il D.lgs. 163/2006. Ma ora sorge un ultimo quesito: il sistema Italia, in un contesto ad elevata competitività quale quello attuale e spasmodicamente assetato di “crescita”, può attendere un altro decennio? Come affermato dallo stesso studio OICE sopra citato, l’appalto di progettazione e costruzione è un primo livello, in termini di difficoltà di attuazione, di formule collaborative orientate alla partnership. Così come verificatosi nel Regno Unito, l’appalto di progettazione e costruzione potrebbe intendersi come l’anticamera a formule più complesse di realizzazione di lavori pubblici, quali i partenariati pubblico-privato. Un sistema paese, caratterizzato da committenze abituate ad impiegare modelli ormai obsoleti basati sul contrasto e la contrapposizione, difficilmente potrà proiettarsi con profitto verso modelli percepiti come eccessivamente distanti rispetto la propria esperienza pregressa.
A cura di Avv. Ciro
Pisano
SDA-Bocconi, School of management - PREM lab
Dott. Francesco
Vitola
SDA-Bocconi, School of management - PREM lab
Politecnico di Milano, Area Tecnico Edilizia