Azione vessatoria e illegittima della pubblica amministrazione: OK al risarcimento danni

In caso di illegittima occupazione di area e revoca di autorizzazione archeologica, necessaria all’insediamento di uno stabilimento balneare, da parte della ...

08/03/2018

In caso di illegittima occupazione di area e revoca di autorizzazione archeologica, necessaria all’insediamento di uno stabilimento balneare, da parte della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio, spetta al privato un risarcimento di natura "compensativa".

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato con la sentenza n. 1457 del 6 marzo 2018 con la quale è intervenuta in un'assurda vicenda di cattiva amministrazione e azione vessatoria da parte della pubblica amministrazione.

I fatti

Il caso riguarda il ricorso presentato contro due sentenze del TAR concernenti il risarcimento danni a seguito di occupazione di area e revoca di autorizzazione archeologica e di occupazione di area. In particolare, gli appellanti sono comproprietari di un suolo adiacente ad un litorale marittimo che costituisce porzione minima di una assai più ampia area sottoposta a vincolo archeologico con D.M. del 6 giugno 1966.

Con istanza ordinaria, gli appellanti presentavano al Comune un progetto finalizzato alla fruizione del suolo in esame per il tempo libero e la balneazione. L’intervento prevedeva la ristrutturazione di alcuni trulli e la collocazione sull’area di opere rimovibili in legno (pedane con ombrelloni e chiosco-bar); per la sosta degli autoveicoli si prevedeva la perimetrazione di un’area.

Con provvedimento della Soprintendenza per i Beni Archeologici veniva autorizzava la realizzazione dell’intervento, previa imposizione di prescrizioni volte ad eliminare qualsiasi interferenza con il sottosuolo. Successivamente, la società appellante conseguiva anche il nulla osta paesaggistico, rilasciato dal Comune e la Soprintendenza per i Beni Culturali e Paesaggistici confermava la piena legittimità di tale autorizzazione.

In esito all’acquisizione di tutti i necessari titoli autorizzatori, con successivo provvedimento, il Comune rilasciava il permesso di costruire e la società avviava i lavori.

Qui comincia l'Odissea.

Successivamente all'avvio dei lavori, sopravveniva un provvedimento di sospensione dell’intervento in itinere da parte della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio. A fondamento dell’ordine di sospensione, l’Amministrazione poneva asserite difformità tra le previsioni di progetto ed i lavori in corso di realizzazione. L’appellante era, quindi, costretta a ricorrere dinanzi al TAR, con ordinanza sospendeva il provvedimento gravato.

Nelle more veniva disposto il sequestro penale dell’area, misura poi revocata con un decreto del P.M. Con successivo decreto, il G.I.P. disponeva l’archiviazione del procedimento penale.

Con successiva ordinanza, l’Amministrazione revocava l’autorizzazione archeologica rilasciata. Con il medesimo provvedimento, il Direttore regionale ordinava al Soprintendente di procedere all’effettuazione di saggi di scavo sull’area di proprietà dei ricorrenti “entro sette giorni”. Con decreto del Soprintendente per i Beni Archeologici veniva disponsta l’occupazione temporanea dell’intera area della complessiva estensione di circa mq. 40.000 (ha 4.23.89), per 12 mesi, allo scopo di effettuare i saggi archeologici in questione. Con autonomo ricorso, gli odierni appellanti impugnavano entrambi i provvedimenti menzionati; con sentenza del TAR il ricorso veniva accolto e, con decisione del Consiglio di Stato veniva respinto l’appello proposto dall’Amministrazione.

Nelle more, veniva adottato un nuovo decreto da parte della Soprintendenza, con cui l’occupazione sull’intera area veniva prorogata per altri 12 mesi. Con sentenza del TAR, anche tale decreto veniva annullato e, con sentenza del Consiglio di Stato veniva nuovamente respinto l’appello proposto dall’Amministrazione.

In merito alla vicenda, i giudici del Consiglio di Stato hanno parlato di "accanimento nei confronti dell’iniziativa imprenditoriale" in modo del tutto sproporzionato rispetto al fine da perseguire. Ciò che emerge appare sintomatico di uno svolgersi dell’attività amministrativa secondo logiche lontane dal modello di correttezza e buona amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione, come si è andato evolvendo nel diritto vivente. Modello in cui, alla tradizionale ed imprescindibile funzione di garanzia di legalità nel perseguimento dell’interesse pubblico, la funzione amministrativa viene a rivestire anche un ruolo di preminente importanza per la creazione di un contesto idoneo a consentire l’intrapresa di iniziative private, anche al fine di accrescere la competitività del Paese nell’attuale contesto internazionale, secondo la logica del confronto e del dialogo tra P.A. e cittadino.

L’evoluzione del modello costituzionale impone di tener conto che l’attività amministrativa produce sempre un “impatto” sulla sfera dei cittadini e delle imprese (ne è conferma l’emersione del principio di accountability). Tale impatto, da un lato, deve essere considerato e quantificato, affiancando agli strumenti giuridici quelli economici di misurazione, che permeano sempre di più l’attività amministrativa; d’altro lato – e soprattutto, ai fini della tutela – tale impatto non può essere trascurato, né assorbito, e nemmeno ridotto forfettariamente in considerazione di una cura dell’interesse pubblico asseritamente prevalente.

Sono emblematiche di tale tendenza tutte le riforme ispirate alla semplificazione e alla trasparenza dell’attività amministrativa, non ultima – per quel che rileva in questa sede, dove all’origine dell’arresto dell’iniziativa degli appellanti vi è la revoca della precedente autorizzazione archeologica – la l. n. 124 del 2015, intervenuta, tra le altre cose, sui presupposti del potere di autotutela, che deve sempre considerare l’affidamento del privato rispetto a un precedente provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica e sul quale basa una precisa strategia imprenditoriale.

Da tempo la giurisprudenza è costante nel ritenere che il provvedimento di autotutela debba essere adeguatamente motivato con riferimento alla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale nonché alla valutazione comparativa dell’interesse dei destinatari al mantenimento delle posizioni e dell’affidamento insorto in capo ai medesimi.

La quantificazione del danno

In riferimento alla richiesta risarcitoria degli appellanti, il Consiglio di Stato ha affermato che nel caso di specie l’impatto della (illegittima) attività della pubblica amministrazione vada quantificato nella sua effettiva portata. Tale portata non può che ricondursi al danno massimo sopportato dal privato per la illegittima attività dell’amministrazione: il mancato funzionamento dell’impianto produttivo, il mancato svolgimento dell’attività d’impresa, il mancato percepimento dei guadagni.

Secondo il Consiglio di Stato, sotto il profilo del negato riconoscimento del danno da mancato guadagno commisurato all’impossibilità di svolgere la propria attività imprenditoriale l’appello merita di essere accolto, con alcune precisazioni.

Al riguardo, a supporto della domanda, i ricorrenti avevano depositato in giudizio perizia recante un’analitica quantificazione del presumibile utile annuale derivante dall’esercizio dell’attività di stabilimento balneare, in tale stima il lucro cessante veniva quantificato in circa €400.000,00 per ogni anno di piena attività dello stabilimento balneare. Il Giudice di prime cure ha ritenuto che tale voce di danno non sarebbe sufficientemente provata; ciò perché il “potenziale pieno funzionamento della struttura risulta del tutto indimostrato”, considerato che “l’area in questione si trova tuttora allo stato incolto ... risultando realizzata solo la ristrutturazione del trullo”. In altre parole, ad avviso del Giudice, la mancata realizzazione della iniziativa imprenditoriale “nel periodo successivo all’annullamento degli atti impeditivi pone fondati dubbi sull’effettività dell’impedimento costituito da questi ultimi”. Tesi non condivisa dal Consiglio di Stato che ha ricordato il criterio che deve governare la materia in questione desumibile dalla norma di cui all’art. 1223 c.c., in base al quale è risarcibile il danno “conseguenza immediata e diretta” dell’illecito.

Secondo l’orientamento dominante tale formula sarebbe espressione del criterio della c.d. causalità adeguata, in base al quale devono ritenersi risarcibili anche le conseguenze indirette e mediate dell’illecito, purché normali, prevedibili e non anomale. In questo ambito, la giurisprudenza civile ha chiarito che la regola dell’art. 1223 cod. civ. “riguarda la determinazione dell’intero danno cagionato oggetto dell’obbligazione risarcitoria, attribuendosi rilievo, all’interno delle serie causali così individuate, a quelle che, nel momento in cui si produce l’evento, non appaiono del tutto inverosimili, come richiesto dalla cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, fondata su un giudizio formulato in termini ipotetici”. Più in generale, l’orientamento prevalente della Corte di Cassazione impone di considerare danni-conseguenza risarcibili quelli riconducibili al fatto illecito secondo principi di regolarità causale che fanno applicazione del criterio dell’id quod plerumque accidit. In questa ottica, la giurisprudenza ritiene risarcibile anche il danno mediato o indiretto, purché sia prodotto da una sequela normale di eventi che traggono origine dal fatto originario secondo la regola probatoria del “più probabile che non”.

A giudizio del Consiglio di Stato, rientra pertanto nelle conseguenze immediate e dirette il pregiudizio consistente nel mancato introito dei guadagni ricavabili dall’attività commerciale poi effettivamente attivata sull’area. Per la quantificazione di tale importo, il mancato introito deve essere correttamente parametrato al ritardo con il quale è stata avviata l’attività, ovvero al periodo nel quale, a causa dei provvedimenti illegittimi dell’amministrazione, la società non ha potuto disporre dell’area.

In altri termini, è comprovato che l’illegittima apprensione dell’area da parte dell’amministrazione ha ritardato la realizzazione del progetto, impedendo la percezione dei relativi frutti per circa un biennio. Invero, senza l’occupazione illegittima, è ragionevole ritenere che la società avrebbe terminato i lavori due anni prima e, perciò avrebbe conseguito maggiori guadagni corrispondenti a due anni di attività ‘a regime’ (avendo dovuto comunque scontare, con due anni di ritardo, un periodo di primo avviamento, con ricavi comprensibilmente inferiori).

Pertanto, i giudici hanno determinato il danno subito nell’importo pari alla somma degli utili ante imposte risultanti dai bilanci depositati relativi agli esercizi 2013 e 2014, dovendosi a tal fine intendere per “utile ante imposte” il risultato del conto economico, depurato da proventi e oneri straordinari, così come risultante dal conto economico. Su tale somma andranno calcolati interessi e rivalutazione, secondo le regole ordinarie, a decorrere dal momento in cui tali utili avrebbero potuto essere prodotti fino al saldo.

A cura di Redazione LavoriPubblici.it

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