Frazionamento unità immobiliare: serve Permesso di Costruire (PdC) o Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA)?
Gli interventi che comportano un aumento delle unità immobiliari (frazionamento) non determinano di per sé la necessità di munirsi del Permesso di Costruire ...
Gli interventi che comportano un aumento delle unità immobiliari (frazionamento) non determinano di per sé la necessità di munirsi del Permesso di Costruire (PdC), essendo al proposito necessario (al di là delle ipotesi di lavori nei centri storici o su immobili vincolati) che vi sia una modifica della volumetria complessiva o dei prospetti, ma solo di Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA).
Lo ha chiarito la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 14725 del 4 aprile 2019 che ha ribaltato la decisione della Corte di appello che aveva condannato il ricorrente per il reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) del D.P.R. n. 380/2001 (c.d. Testo Unico Edilizia) per aver realizzato un intervento di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire, essendo stata presentata soltanto una S.C.I.A. per lavori di risanamento conservativo e il tecnico per il reato di cui all'art. 19, comma 6 della Iegge 7 agosto 1990, n. 241 in relazione alle false rappresentazioni e attestazioni commesse in qualità di tecnico nell'asseverazione allegata alla S.C.I.A.
Il ricorso
In riferimento al primo reato sono state dedotte le seguenti doglianze:
- violazione dell'art. 3, comma 1, lett. c) del Testo Unico Edilizia per aver la Corte territoriale erroneamente qualificato l'intervento come ristrutturazione edilizia soggetta al permesso di costruire, piuttosto che come risanamento conservativo soggetto a S.C.I.A.;
- vizio di motivazione in relazione alla qualificazione giuridica dell'intervento nei suddetti termini sul mero rilievo, non valorizzato dal giudice di primo grado, che i lavori avevano comportato il frazionamento dell'unità immobiliare in quattro distinte ed autonome unità senza invece valutare un eventuale aumento della superficie utile lorda.
In riferimento al primo punto il ricorrente ha lamentato la violazione dell'art. 44 lett. b) del Testo Unico Edilizia, in relazione al precedente art. 3, per essere stato l'intervento qualificato come ristrutturazione edilizia anziché come risanamento conservativo, rilevando che l'art. 10, comma 1, lett. c) del DPR 380/2001 non comprende più, tra gli interventi di ristrutturazione soggetti al permesso di costruire, quelli comportanti aumento di unità immobiliari.
La decisione della Corte di Cassazione
Gli ermellini ha rilevato come la sentenza impugnata ha addebitato al ricorrente il reato di abuso edilizio per aver eseguito in assenza di permesso di costruire lavori di ristrutturazione di un immobile comportanti la suddivisione in quattro unità immobiliari, la demolizione dei solai del sottotetto finalizzata alla realizzazione di nuovi volumi abitabili nel vano sottotetto, lavori non rientranti in un intervento di risanamento conservativo, in relazione al quale era stata presentata la S.C.I.A. La sentenza si sarebbe limitata a rilevare come la S.C.I.A. presentata per l'esecuzione dei lavori non fosse sufficiente sul rilievo che la trasformazione del bene da una a quattro unità immobiliari non possa essere ricondotta alla riduttiva nozione del risanamento conservativo ma costituisca ristrutturazione edilizia, con conseguente necessità di richiedere il permesso di costruire.
La Suprema Corte ha ritenuto errata la decisione della Corte di Appello poiché, pur potendosi convenire sulla qualificazione giuridica dell'intervento in termini di ristrutturazione edilizia piuttosto che di risanamento conservativo, tenendo conto che si è trattato di un insieme sistematico di opere che ha indubbiamente portato ad un organismo edilizio diverso dal precedente, sia per la trasformazione di un appartamento in quattro distinte unità abitative, sia per la modifica di elementi costitutivi (quali il ribassamento dei solai) e l'inserimento di nuovi impianti (funzionali al godimento delle plurime unità realizzate), non per ciò solo sarebbe stato necessario il permesso di costruire. La Corte territoriale, infatti, avrebbe trascurato di considerare che non tutti gli interventi di ristrutturazione edilizia sono soggetti al previo rilascio del menzionato titolo, sì che l'esecuzione dei lavori in assenza del medesimo integra il reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), DPR 380/2001.
Rispetto alla definizione di ristrutturazione edilizia data dall'art. 3, comma 1, lett. d), il successivo art. 10, comma 1, lett. c), nel testo oggi vigente del DPR n. 380/2001, assoggetta al regime del permesso di costruire - salve le ipotesi, che nella specie non ricorrono, della modifica della destinazione d'uso nei centri storici o delle modificazioni della sagoma di immobili vincolati - soltanto quegli interventi che "portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti".
Si tratta degli interventi definiti di ristrutturazione edilizia c.d. "pesante" che, a differenza delle residuali ipotesi rientranti nella categoria - per la cui realizzazione è sufficiente la S.C.I.A. in forza della residuale previsione di cui all'art. 22, comma 1, lett. c), DPR n. 380/2001 - sono assoggettati al previo rilascio del permesso di costruire con conseguente realizzazione della fattispecie penale contestata nel caso di assenza del titolo. Se, per contro, si tratti di ristrutturazione edilizia "leggera" per cui è sufficiente la S.C.I.A., quand'anche non fosse stata corretta la qualificazione dei lavori in termini di risanamento conservativo data dai richiedenti, il fatto non integrerebbe gli estremi del reato contestato.
La Cassazione ha anche rilevato che la Corte territoriale sarebbe probabilmente incorsa in errore per aver fatto applicazione dell'originario testo dell'art. 10, comma 1, lett. c) del DPR n. 380/2001, che, tra l'altro, qualificava come ristrutturazioni edilizie pesanti anche gli interventi che comportino "aumento delle unità immobiliari", sicché la motivazione della sentenza impugnata si è limitata a tale rilievo per ritenere la sussistenza del reato senza ulteriormente valutare se vi fosse stato aumento di volumetria, come invece aveva fatto il giudice di primo grado, pur con giudizio fatto oggetto di specifiche censure che il giudice d'appello non ha esaminato. La disposizione è stata tuttavia modificata dall'art. 17, comma 1, lett. d), D.L. n. 133/2014 che, interpolando la norma definitoria della ristrutturazione edilizia c.d. "pesante", ha eliminato il citato riferimento allo "aumento delle unità immobiliari" (oltre a quello, parimenti contenuto nell'originaria disposizione, "delle superfici utili"). Il solo aumento delle unità immobiliari - che, peraltro, di regola già rileva per far ritenere che l'organismo che subisca un tale intervento sia "in tutto o in parte diverso dal precedente" - non determina più, dunque, la necessità di munirsi del previo permesso di costruire, essendo al proposito necessario (al di là delle richiamate ipotesi di lavori nei centri storici o su immobili vincolati) che vi sia una modifica della volumetria complessiva o dei prospetti. Questo accertamento è tuttavia mancato da parte del giudice d'appello.
Al proposito, l'art. 23, comma 1 del DPR n. 380/2001 - che, pur espressamente riferito alla S.C.I.A. alternativa al permesso di costruire, detta una disciplina generale applicabile a qualsiasi ipotesi di S.C.I.A. in materia edilizia - prescrive che il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo ad effettuare l'intervento presenta allo sportello unico la segnalazione accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienicosanitarie. A tali documenti occorre pertanto fare riferimento per applicare alle ipotesi in parola la norma incriminatrice contenuta nell'art. 19, comma 6, Iegge n. 241/1990, la quale, in via generale, punisce, «ove il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l'esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al comma 1». I requisiti o presupposti, precisa poi la disposizione richiamata, sono quelli, richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale, ai quali è subordinato lo svolgimento dell'attività per cui è presentata la segnalazione certificata e tra i documenti e gli atti richiamati sono espressamente menzionate le «attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati...corredati dagli elaborati tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza dell'amministrazione» (art. 19, comma 1, I. 241 del 1990).
In materia edilizia, tali elaborati sono quelli espressamente richiamati dall'art. 23, comma 1, DPR n. 380/2001 che, allo scopo di consentire all'amministrazione di verificare la sussistenza dei presupposti perché l'intervento possa essere effettuato con S.C.I.A., debbono fedelmente rappresentare - secondo, peraltro, una prassi consolidata - lo stato dei luoghi attuale e quello in progetto. Essi - ovviamente redatti dai tecnici abilitati e da essi sottoscritti - sono, dunque, atti che rientrano nella competenza, e nella responsabilità, dei professionisti incaricati. Sanzionando la citata norma incriminatrice la condotta di "chiunque" attesti il falso nella redazione degli atti e documenti presentati a corredo della S.C.I.A., non v'è dubbio, pertanto, che - a prescindere da un eventuale concorso anche del privato committente (nella specie tuttavia non contestato) - del fatto debba in via immediata rispondere l'autore del documento e dunque, nel caso di tavole progettuali, il tecnico redigente.
Ciò posto, reputa tuttavia il Collegio che sia censurabile, perché manifestamente illogica, l'affermazione secondo cui la falsa attestazione delle altezze del piano sottotetto contestata in imputazione costituisca reato sul piano oggettivo e soggettivo perché diretta a supportare la descrizione di un'opera non soggetta a permesso di costruire e realizzabile invece con mera S.C.I.A. Laddove così fosse, in base alla riportata disciplina, non vi sarebbe dubbio circa l'integrazione del reato e la ritenuta sussistenza del dolo non sarebbe illogica, ma nel caso di specie la sentenza impugnata non spiega in alcun modo quale sia il nesso tra l'abbassamento dei solai (che, in tesi, il falso doloso mirava a celare) e la riconduzione dei lavori ad una categoria di intervento edilizio che necessitava dei permesso di costruire. Anche in tale valutazione, peraltro, la Corte territoriale incorre nel medesimo errore interpretativo di, poiché muove dall'inesatto presupposto che se il ribassamento dei solai impedisce di poter qualificare l'intervento come restauro o risanamento conservativo, trattandosi invece di ristrutturazione edilizia, si sarebbe certamente dovuto richiedere il permesso di costruire. Esclusa la fondatezza di tale conclusione, nella prospettiva seguita dal giudice d'appello era dunque necessario spiegare adeguatamente perché l'abbassamento dei solai avrebbe imposto di seguire l'iter del permesso di costruire o, in alternativa per quale altra ragione possa comunque configurarsi il dolo del tecnico se la falsa attestazione contenuta nelle tavole progettuali aveva avuto l'unico effetto di impedire la riconduzione dell'intervento alla categoria della ristrutturazione edilizia "leggera" piuttosto che a quella, dichiarata e ritenuta, del restauro o risanamento conservativo, entrambe eseguibili con semplice S.C.I.A.
A cura di Redazione LavoriPubblici.it
Documenti Allegati
Sentenza Corte di Cassazione 4 aprile 2019, n. 14725Link Correlati
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