Cause da esclusione e illeciti professionali: il TAR sull'omessa dichiarazione delle condanne penali
Secondo i giudici, oltre a quanto specificato all'interno dell'art. 80 del D.Lgs. n. 50/2016, vale il principio per cui tra le condanne rilevanti vanno incluse non solo quelle specificatamente elencate nella norma, ma anche quelle comunque incidenti "sull'affidabilità dell'impresa"
Omessa dichiarazione di una condanna penale di una società: ecco l'argomento "cardine" della sentenza del Tar Puglia n. 495/2021 che spiega i motivi di esclusione di una società da un bando di gara milionario.
Il ricorso
Propone ricorso una società arrivata seconda per l'affidamento di un grossissimo bando di gara milionario bandito degli aeroporti di Puglia. Ad aggiudicarsi la gara un Rti. Ma nell'occhio del ciclone (e dei giudici), finisce un tizio, in passato socio di maggioranza di una delle società del raggruppamento. La società seconda arrivata chiede la revoca dell'affidamento.
L'omessa dichiarazione
Si parte da qui nella sentenza dei giudici. Che spiegano nella sentenza che l'omessa dichiarazione della condanna in primo grado dell'ex socio di maggioranza è determinante. Viene incluso nel concetto di "grave illecito professionale) "qualunque condotta, collegata all’esercizio dell’attività professionale, che si riveli contraria ad un dovere posto da una norma giuridica sia essa di natura civile, penale o amministrativa e che risulti in grado di mettere in dubbio l’integrità e l’affidabilità dell’operatore economico". Tra queste vengono considerate anche le condanne per reati in sé non ostativi, come viene disciplinato dal D.Lgs. n. 50/2016 (Codice dei contratti), in particolare all'art. 80.
I fatti da dichiarare
Secondo la norma, la società che partecipa ad un bando di gara non può valutare o scegliere i fatti da indicare nella domanda, "sussistendo, al contrario, un principio di doverosa onnicomprensività della dichiarazione tale da consentire alla stazione appaltante di espletare, con piena cognizione di causa, le opportune valutazioni di sua competenza". Il limite dei tre anni, spiegano i giudici, "non può intendersi riferito alle ipotesi di esclusione per gravi illeciti professionali e al conseguente onere dichiarativo". Per questo la condanna, seppur in primo grado, non può essere considerata irrilevante ai fini dichiarativi.
La segnalazione delle condanne
Nel disciplinare era ben specificato, dicono i giudici, di elencare le eventuali condanne. Lo faceva attraverso la presentazione del documento di gara unico europeo in cui attestare che la società non si trovi "in una delle situazioni previste dall'art. 80". E quindi non vale quanto dichiarato dal Raggruppamento vincitore che spiegava che il disciplinare prevedeva solo di dichiarare le sentenze definitive o decreto penale di condanna divenuto irrevocabile.
Affidabilità dell'impresa
Secondo i giudici, oltre a quanto specificato all'interno dell'art. 80 del D.Lgs. n. 50/2016 che elenca i reati, vale il principio per cui tra le condanne rilevanti vanno incluse non solo quelle specificatamente elencate nella norma, ma anche quelle comunque incidenti "sull'affidabilità dell'impresa". Diversamente opinando, dicono i giudici, "si addiverrebbe all’effetto aberrante di escludere la rilevanza di qualsiasi sentenza di condanna ai fini della valutazione di affidabilità". Ma posto che le condanne penali riguardano le persone fisiche e non le imprese, "le figure gestorie delle società non possono non essere le stesse individuate dall'art.80". In ogni caso, ribadiscono i giudici, il disciplinare parlava chiaro. In pratica quando l'illecito professionale è consequenziale a una condanna penale (pur se non passata in giudicato), la valutazione di inaffidabilità morale è effettuata a carico della società. Perché il socio di maggioranza che riceve una condanna rientra nell'elenco previsto dall'art.80 ed è capace di determinare il "contagio" della società di appartenenza. Esclusione dell'Rti dal bando, dunque, correttamente eseguita.
Il "passaggio di mano" fittizio
Nella decisione, i giudici hanno valutato il fatto che l'ex socio di maggioranza condannato in primo grado "ha dimostrato, mediante cessioni di quote a familiari e interposizione di schermi societari fittizi, una chiara volontà elusiva e volta a celare alle stazioni appaltanti interessate la circostanza che ancora oggi la proprietà della società è saldamente nelle mani della cerchia ristretta dei suoi familiari (in particolare la madre, attuale socio sovrano e legale rappresentante). In tutto questo non vi è, invece, alcuna volontà di discontinuità".
Il "socio sovrano"
Nella sentenza viene citata una specifica sentenza del consiglio di Stato che spiega cos'è il socio sovrano: "Il socio persona fisica o società che detiene la larga maggioranza del capitale di una società; dunque il socio che in una società in cui vige il principio maggioritario, avendo il dominio dell’assemblea ordinaria e straordinaria, ha il potere di nomina esclusiva degli amministratori e dei sindaci e può decidere le modifiche dell’atto costitutivo e determinare le decisioni più rilevanti. Svolge, quindi, per effetto della propria partecipazione di maggioranza, un ruolo dominante all’interno della compagine societaria, determinando e condizionando, con scelte personali, l’attività della società". Cosa che è avvenuta nel caso analizzato, in cui il socio di maggioranza detiene il 74 per cento delle quote.
La discrezionalità della società appaltante
Per i giudici, le stazioni appaltanti hanno la facoltà di desumere il compimento di "gravi illeciti" da ogni vicenda pregressa dell'attività professionale dell'operatore economico, di cui sia accertata la contrarietà ad un dovere posto in una norma civile, penale o amministrativa. E, aggiungono i giudici, "spetta alla stazione appaltante, nell’esercizio di ampia discrezionalità, apprezzare autonomamente le pregresse vicende professionali dell’operatore economico, persino se non abbiano dato luogo ad un provvedimento di condanna in sede penale o civile, perché essa sola può fissare il punto di rottura dell’affidamento nel pregresso o futuro contraente". Non assume rilevanza il fatto che sia pendente un ricorso per revocazione della condanna. Analizzate tutte le situazioni, per i giudici bene ha agito la stazione appaltante ad escludere il Raggruppamento di Imprese. Perché era doveroso dichiarare la condanna in primo grado dell'ex socio di maggioranza. Che comunque oggi continua ad orbitare all'interno della società in un primo momento risultata vincitrice. Il Tar di Puglia, dunque, ha respinto l'intero ricorso.
Documenti Allegati
Sentenza TAR Puglia 24 marzo 2021, n. 495