Edifici pericolanti e mancata messa in sicurezza: cosa accade?
La Corte di Cassazione chiarisce cosa accade ai proprietari di un immobile che non hanno ottemperato ad una ordinanza di messa in sicurezza del Comune
La normativa edilizia prevede uno specifico iter per la demolizione degli abusi e la remissione in pristino dei luoghi. Un iter scandito da tempi e competenze (del proprietario, del Comune, della Regione e del Prefetto). Cosa accade, invece, nel caso di ordinanza del Sindaco per la messa in sicurezza di un edificio pericolante?
Edifici pericolanti e mancata messa in sicurezza: nuova sentenza della Cassazione
A rispondere a questa domanda ci ha pensato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 25176 dell'1 luglio 2021 che ci consente di approfondire l'argomento. A proporre ricorso questa volta è il proprietario di un immobile ritenuto pericolante e pericoloso per l'incolumità pubblica da parte del Comune che, proprio per questo, ha emesso un'ordinanza sindacale per la messa in sicurezza.
Accertato che il proprietario non aveva ottemperato agli obblighi previsti dall'ordinanza, il Comune lo ha condannato alla sanzione di 2.400 euro. Sanzione confermata anche dal Tribunale che ha accertato la mancata ottemperanza, nel termine previsto, per le opere indispensabili alla messa in sicurezza dell'immobile che minacciava rovina, creando pericolo per le persone.
Il ricorso e la decisione del TAR
In primo grado viene contestata la mancata applicazione delle previsioni contenute nell'art. 131-bis (Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto) del codice penale. Il Tribunale ha giustificato la decisione ritenendo il livello di "pericolo per le persone", insito nella condotta illecita degli imputati, rispetto al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice così elevato da escludere la particolare tenuità del fatto. Al riguardo, la sentenza in verifica ha osservato che la toltale trascuratezza nel provvedere alla messa in sicurezza dell'edificio, protrattasi per un periodo consistente, aveva determinato la caduta di tegole sulla pubblica via e nel fondo confinante, abitato da altro nucleo familiare, sicché il rischio che una pluralità di persone, che avevano libero accesso nei luoghi interessati, subissero conseguenze alla loro integrità fisica, venendo colpite da elementi della costruzione in corso di deterioramento, era stato concreto ed effettivo.
La gravità del reato
La gravità del reato, valutata come ostativa al riconoscimento della causa di proscioglimento di cui all'art. 131-bis del codice penale è stata, quindi, desunta da una ricostruzione fattuale della vicenda non censurabile in sede di legittimità perché non manifestamente illogica, oltre che aderente alle risultanze probatorie espressamente menzionate quali la deposizione dell'agente della polizia municipale, il quale aveva personalmente riscontrato e documentato con alcune fotografie allegate alla relazione di servizio la caduta delle tegole e pezzi di listello di legno in strada e all'interno del cortile del vicino richiedente l'intervento.
La confutazione da parte del ricorrente è fondata su atti processuali genericamente citati e non allegati. Proprio per questo, il Tribunale, lungi dal non giustificare il potere discrezionale in materia di quantificazione della pena, ha congruamente ancorato al già descritto carattere pericoloso della violazione la scelta di irrogare una pena base solo pecuniaria (invece che detentiva), distante sì dal minimo ma nettamente inferiore al massimo edittale (euro 10.000,00 ex art. 26 cod. pen.) e l'ha diminuita di un terzo per le attenuanti generiche.
Apprezzamenti che non competono alla Corte di Cassazione.
Le condizioni economiche della sanzione
Tra le altre cose, la Cassazione ha precisato che le condizioni economiche del reo non configurando una circostanza del reato, ma solo un parametro per la quantificazione della pena, non devono essere previamente contestate dal pubblico ministero, ma devono essere provate (o almeno allegate) dalla parte processuale che ne invochi la valutazione.
Nel caso di specie, è l'imputato a chiedere la riduzione della pena pecuniaria perché anche la misura minima gli risultava eccessivamente gravosa. A questa richiesta la Corte ha ritenuto necessario che lo stesso imputato allegasse l'indispensabile documentazione atta a chiarire la sua situazione economica. Gli imputati, però, si sono limitati a chiedere l'applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis cod. pen. senza invocare la diminuzione ulteriore ex art. 133 bis, secondo comma, cod. pen. e senza produrre o allegare davanti al giudice di merito elementi utili per valutare le condizioni economiche se non l'intervenuta ammissione al gratuito patrocinio per di più citata solo in sede di ricorso.
In siffatta situazione è evidente che il Tribunale non aveva, alcun obbligo di prendere in considerazione le condizioni economiche dell'imputato ai fini della diminuente di cui all'art. 133 bis, secondo comma, cod. pen. perché non erano state né allegate né documentate dal difensore.
Documenti Allegati
Sentenza Corte di Cassazione 1 luglio 2021, n. 25176