Demoricostruzione e vincolo paesaggistico: dai TAR indicazioni rivoluzionarie e conservatrici
Le Sentenze del TAR Marche e Lazio intervengono in modo opposto sulla definizione di ristrutturazione edilizia in caso di demolizione e ricostruzione
La demolizione e ricostruzione “non fedelissima” su immobili ricadenti in vincolo paesaggistico costituisce nuova costruzione?
Ristrutturazione edilizia: cosa dice il d.P.R. n. 380/2001
Il punto, come è noto, sta nella lettura ed interpretazione della seconda parte dell’art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) in base alla quale:
...con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nonché, fatte salve le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici, a quelli ubicati nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria.
Il tema è oggetto di un acceso dibattito che, da ultimo, ha visto contrapposti anche il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici (CSLLPP) e il Ministero della Cultura (e, a valle, Direzioni Regionali e Soprintendenze).
Il nodo interpretativo
Il nodo da sciogliere è se la norma quando si riferisce ad “immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”, ricomprenda solo gli edifici interessati da vincolo diretti (ex art. 10 e 136 del D.Lgs. n. 42/2004) o, invece, abbia ad oggetto anche fabbricati (di nessuna rilevanza storico-paesaggistico-testimoniale) ricadenti in vincolo paesaggistico (di tipo “areale”).
La questione, in realtà, è tutt’altro che nuova essendo stata affrontata - e risolta secondo l’interpretazione più ampia, come ricorderemo a breve - dalla giurisprudenza (amministrativa e penale) anche nella vigenza della precedente versione dell’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380/2001 (disposizione che si riferiva agli immobili “vincolati” ai sensi del D.Lgs. 42/2004).
Lo stato dell'arte e la giurisprudenza del TAR
Del parere CSLP abbiamo già trattato così come della successiva presa di posizione del Ministero della Cultura.
Lo stato dell’arte - ossia la giurisprudenza consolidata - propende per l’interpretazione secondo la quale per immobili sottoposti a tutela (e, prima, a vincolo) debbano intendersi anche gli edifici ricadenti in vincolo paesaggistico: in tal senso si segnalano ad esempio TAR Sardegna, Sez. II, 5.12.2017, n. 772, Cons. Stato, Sez. IV, 29.12.2017, n. 6165, quanto al regime “ante DL Semplificazioni 2020” nonché, più di recente, TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 28.2.2022, n. 202 e, da ultimo, TAR Lazio, Sez. II-bis, 28.3.2022, n. 3486 (sulla quale torneremo a breve).
Insomma, fino ad oggi (tanto ante che post Decreto Semplificazioni 2020) l’interpretazione (più che) dominante è quella restrittiva.
La “rivoluzionaria” sentenza del TAR Marche
Tutto ciò almeno fino alla sentenza del TAR Marche, Sez. I, 18.3.2022, n. 170, decisione destinata a riaprire il dibattito e - ove appellata - a “costringere” il Consiglio di Stato ad una nuova presa di posizione.
La vicenda esaminata dal Giudice Amministrativo è “semplice” nonché esemplificativa del paradosso che - a nostro avviso, così come di tantissimi operatori del settore - viene a prodursi per effetto della (consolidata) interpretazione “restrittiva”.
Il caso deciso
Una azienda agricola intende demolire e ricostruire tre fabbricati rurali, in pessime condizioni e qualificati come collabenti. Il progetto, in particolare, prevede la delocalizzazione di tali cubature in altra area del lotto e ciò anche al fine di migliorarne la tenuta strutturale (trovandosi i fabbricati attuali in una zona del lotto fortemente scoscesa e pendente), la funzionalità rurale (essendo privi di una idonea viabilità) nonché per l’adeguamento alla disciplina delle distanze dai confini.
A tal fine l’impresa ha ottenuto il positivo parere della locale Soprintendenza ai sensi dell’art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004 (si legge nella sentenza che l’intervento, a giudizio dell’Ente tutore del vincolo, garantisce “la salvaguardia dei valori paesaggistici codificati dai provvedimenti di tutela”, previa imposizione di talune prescrizioni).
Decorso, poi, il termine per il silenzio-assenso sul titolo edilizio richiesto, la società aveva domandato l’attestazione dell’avvenuta formazione del silenzio assenso.
Per tutta risposta la P.A. ha adottato il provvedimento di annullamento in autotutela, motivato sulla impossibilità di qualificare l’intervento quale ristrutturazione edilizia - essendo l’area interessata da vincolo paesaggistico - da ciò conseguendo la non attuabilità dell’intervento, non essendo ammessa nell’area la nuova costruzione con un cubatura pari a quella oggetto di demolizione e ricostruzione.
La decisione del TAR
Il provvedimento è stato annullato dal TAR, con una decisione che - come anticipato - è per certi aspetti “rivoluzionaria”.
In primo luogo la sentenza rileva che l’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 deve essere inquadrato nel contesto della evoluzione normativa ossia “alla luce dell’obiettivo di ridurre il consumo di nuovo suolo, ha progressivamente ampliato la nozione di ristrutturazione edilizia c.d. ricostruttiva, facendo venire meno dapprima l’obbligo della “fedele ricostruzione” e successivamente anche quelli della conservazione della sagoma e dell’area di sedime”.
Inoltre, il TAR Marche ha anche valorizzato una delle nuove disposizioni introdotte con il Decreto Semplificazioni 2020.
In particolare, ad avviso del Collegio, la circostanza che il nuovo art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380/2001 contempli oggi quale oggetto di tutela anche tre nuove categorie di beni tutelati (ossia gli edifici “ubicati nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico”) ma non anche, espressamente, i fabbricati ricadenti in vincolo paesaggistico, depone nel senso che il Legislatore non ha voluto accogliere l’interpretazione “restrittiva”.
Ma la decisione del TAR va oltre.
Innanzi tutto la sentenza evidenzia che mentre “il principio generale a cui è improntata la legislazione in materia di tutela dei beni culturali, architettonici, storici e paesaggistici è che su tali beni sono eseguibili tutti gli interventi edilizi e di restauro che siano compatibili con la natura del singolo bene, il che deve essere valutato caso per caso dal competente organo periferico del Ministero della Cultura”, per contro, il D.P.R. 380/2001 “si occupa invece di classificare le tipologie degli interventi edilizi astrattamente realizzabili dai proprietari di beni immobili, ma tale classificazione, come è noto, è per così dire “statica”, spettando ai piani regolatori comunali o ai piani paesistico-ambientali o ad altri analoghi strumenti pianificatori stabilire quali fra gli interventi indicati dall’art. 3 sono ammissibili in ciascuna parte del territorio di riferimento. Ma neanche i piani comunali o sovracomunali sono idonei di per sé a compromettere le esigenze di tutela dei beni sottoposti a vincoli ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004, visto che, ogni qualvolta un intervento edilizio ammesso dallo strumento di pianificazione è astrattamente idoneo ad intercettare uno o più beni vincolati, scatta l’onere di acquisizione dell’atto di assenso da parte della competente Soprintendenza”.
Insomma, “il fatto che una determinata area sia sottoposta a vincolo paesaggistico non è di per sé ostativo ad interventi anche di nuova costruzione (ovviamente se previsti dal P.R.G.), sempre che venga acquisita l’autorizzazione paesaggistica. Infatti, per come è formulato l’art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004, il sistema dell’autorizzazione paesaggistica non consente agli enti locali, solitamente più sensibili agli interessi dei proprietari, di eludere la normativa vincolistica, non potendo essi superare l’eventuale parere negativo del Soprintendente (…)”.
Altro aspetto che il TAR affronta è l’argomento lessicale: l’art. 3 si riferisce agli “immobili” oggetto di tutela (secondo la tesi ribadita anche dal Ministero della Cultura, oltre che dalla giurisprudenza “tradizionale” più volte citata per immobile sarebbero da intendersi non solo gli edifici, ma anche le “aree”).
Questa lettura viene superata dalla sentenza del TAR Marche mettendo in relazione l’art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 380/2001 con l’art. 136 del D.Lgs. n. 42/2004 (che distingue tra “immobili”, ossia edifici, ed “aree”) e spiegando che l’utilizzo nell’art. 3 del Testo Unico Edilizia dell’espressione “immobili” nella frase di nostro interesse “è dovuto alla necessità di evitare una ripetizione nell’ambito della stessa frase, per cui una volta il legislatore utilizza il termine “immobili” e un’altra volta utilizza il termine “edifici””.
Infine, a chiosa del proprio ragionamento, la sentenza pone l’accento sulle conseguenze paradossali a cui giunge la diversa interpretazione: “l’interpretazione estensiva [ossia quella che considera i soli edifici “vincolati” direttamente] dell’art. 3, let. d), del D.P.R. n. 380/2001 non determina alcun pericolo di compromissione dei valori alla cui tutela è preposto il D.Lgs. n. 42/2004”.
Infatti, aggiunge al riguardo il TAR, “l’opposto orientamento si fonda su un fraintendimento, ossia che la modifica dell’area di sedime [nda: in questo caso l’elemento dirimente era la modifica dell’area di sedime, ma analogo ragionamento può valere anche per gli altri parametri: sagoma, prospetti, caratteristiche tipolifiche e cubatura] di un fabbricato preesistente interessato da un intervento di demolizione e ricostruzione (…) leda per definizione l’interesse paesaggistico. Al contrario, come si è cercato di spiegare, in molti casi la traslazione del manufatto all’interno del lotto risulta, dal punto di vista paesaggistico, non solo neutra ma addirittura preferibile (e questo è oggetto della valutazione ampiamente discrezionale che la Soprintendenza deve compiere ai sensi dell’art. 146 del Codice dei beni culturali), il che è a dirsi soprattutto per gli immobili realizzati prima dell’introduzione del vincolo. Infatti, e il caso di specie lo dimostra, manufatti molto risalenti nel tempo e realizzati in periodi storici in cui le esigenze di tutela dell’ambiente e del paesaggio erano assenti o comunque molto meno sentite, vengono in qualche modo “subiti” dal provvedimento istitutivo del vincolo (il quale non può ovviamente disporne la demolizione)”.
La recentissima (e “conservatrice”) decisione del TAR Lazio
Come premesso, la sentenza del TAR Marche resta una decisione del tutto isolata (apprezzabile per molte ragioni, che esamineremo anche nelle conclusioni).
Infatti, la giurisprudenza continua a seguire la diversa restrittiva interpretazione avallata, come abbiamo ricordato, dallo stesso Ministero della Cultura.
Un esempio è la ancor più recente decisione del TAR Lazio, Sez. II-bis, 28.3.2022, n. 3486.
La fattispecie è abbastanza simile e anche qui il diniego (alla qualificazione dell’intervento come ristrutturazione edilizia, anziché nuova costruzione) è pervenuto per l’avvenuta modifica di un parametro edilizio (in questo caso la sagoma) in occasione della demoricostruzione di un edificio ricadente in vincolo paesaggistico “areale”. E, si noti, anche in questo caso così come nella vicenda marchigiana, l’istante aveva ottenuto l’assenso della Soprintendenza (insomma: pure qui è acclarato che l’intervento non era lesivo dei valori paesaggistici, asseritamente “protetti”dall’art. 3, co. 1, lett. d), D.P.R. 380/2001 …).
Il TAR Lazio in questo caso ha rigettato il ricorso e ciò ragionando sul tema (prima accennato) del rapporto tra “immobili vincolati” e “aree vincolate”.
Sul punto la conclusione del TAR si incentra sul rilievo che se prima del Decreto Semplificazioni 2020 la norma si riferiva ad immobili “vincolati” (il che lasciava, a dire del TAR Lazio, aperta la diversa interpretazione), oggi la disposizione parla di “immobili sottoposti a tutela”.
Da ciò conseguendo un ampliamento dell’ambito materiale della previsione di legge, applicabile a “tutti gli immobili variamente soggetti a tutela” (che sia un vincolo diretto o una diversa forma di “tutela”, in altri termini) ai sensi del d.lgs. 42/2004. L’argomento, va detto, non è affatto privo di pregio.
Inoltre il TAR Lazio valorizza - ma in modo antitetico rispetto al TAR Marche - la circostanza che oggi il Legislatore contempli anche altre categorie di immobili (quelli “ubicati nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico”), ossia anche in questo caso una serie di ipotesi nelle quali “l’immobile potrebbe pure non essere soggetto ad un provvedimento specifico di apposizione di un vincolo … ma in cui, ugualmente, non sono ammissibili interventi” di demoricostruzione “infedele”.
E così, pur a fronte di un positivo giudizio paesaggistico, il diniego rimane fermo.
Qualche rilievo e un dubbio di costituzionalità
Nell’attesa e nella speranza che la giurisprudenza possa ri-orientarsi valorizzando gli argomenti sviluppati dal TAR Marche (sentenza che verosimilmente verrà appellata, il che consentirà al Consiglio di Stato di prender posizione), cogliamo l’occasione per una riflessione “conclusiva”.
Se i ragionamenti “sostanziali” sviluppati dal TAR Marche - forse - non sono sufficientemente solidi da poter sostenere un radicale cambiamento di rotta nella interpretazione della norma, a nostro avviso, invece, gli stessi ben spiegano perché la disposiziobne ponga, allora, seri dubbi di ragionevolezza e costituzionalità.
Vediamo perché, riprendendo alcuni concetti espressi in precedenza in altro nostro precedente contributo.
1) Il regime ex art. 3, co. 1, lett. d), d.P.R. n. 380/2001 è “inutile” ai fini della tutela del paesaggio
La disposizione incide - come è noto - non già sulla astratta ammissibilità dell’intervento di demoricostruzione (rimessa necessariamente alla pianificazione urbanistica e paesaggistica) ma sulla sua qualificazione quale ristrutturazione edilizia (quando “fedelissima”, ossia con identità di sagoma, volume, prospetti e caratteristiche tipologiche) ovvero quale nuova edificazione (allorquando venga mutato anche uno solo dei sopra citati parametri).
Per quale ragione una simile previsione (apparentemente ispirata ad una ratio di tutela del paesaggio) è, a nostro avviso, “inutile”?
E’ presto detto: la mera classificazione dell’intervento quale ristrutturazione edilizia o quale nuova edificazione non è di per sé portatrice di un maggior livello di tutela paesaggistica.
E il caso deciso dal TAR Marche ce ne dà una plastica riprova.
Il che rende evidente anche la irragionevolezza della norma, tale da frustrare le finalità di rigenerazione e riqualificazione urbana, oltre che di perseguimento delle finalità di tutela del paesaggio, e ciò impedendo (ad esempio quando il Piano Paesaggistico ammetta solo interventi di “ristrutturazione edilizia“, con rinvio “secco” al D.P.R. 380/01) o rendendo particolarmente gravosi tali interventi edilizi: si pensi ad esempio all’impossibilità di accedere ai benefici del superbonus110 o alle riduzioni del contributo di costruzione oggi previste per gli interventi di ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 17 D.P.R. 380/2001.
2) Profili di possibile incostituzionalità
Oltre a tale dubbio circa la utilità della previsione (se interpretata come da giurisprudenza pressoché univoca, eccezion fatta per il TAR Marche), riteniamo che la norma sia suscettibile di un giudizio negativo di conformità a Costituzione.
Ciò, innanzi tutto, in quanto la “irragionevolezza” di una norma può rilevare, anche da sola, ai fini di una declaratoria di incostituzionalità.
Irragionevolezza che, peraltro, appare evidente sol che si consideri come la riscrittura dell’art. 3, co. 1, lett. d), D.P.R. 380/2001 sia avvenuta ad opera di una norma (l’art. 10, co. 1, D.L. 76/2020, conv. in L. 120/2020 c.d. Decreto Semplificazioni) la cui dichiarata finalità è quella di “semplificare e accelerare le procedure edilizie e ridurre gli oneri a carico dei cittadini e delle imprese, nonché di assicurare il recupero e la qualificazione del patrimonio edilizio esistente e lo sviluppo di processi di rigenerazione urbana, decarbonizzazione, efficientamento energetico, messa in sicurezza sismica e contenimento del consumo di suolo”.
Anche questo tema, a ben vedere, emerge dalla decisione del TAR Marche, laddove “forzando” l’interpretazione della norma, cerca di contestualizzarla nella evoluzione legislativa in corso.
3) Vi sono, poi, alcuni ulteriori profili che depongono nel senso della ipotizzata illegittimità costituzionale (o quantomeno che suggeriscono un ripensamento da parte del Legislatore)
Il primo attiene alla, per così dire, “incompetenza” della norma che prevede la regola “incriminata”.
Aver previsto simile regola nell’ambito del D.P.R. 380/2001 (T.U. dell’Edilizia) - senza che alla stessa corrisponda, come prima visto, una effettiva ratio di tutela dei beni paesaggistici - determina una possibile invasione di campo non solo del d.lgs. 42/2004 ma, soprattutto, delle prerogative “di merito” degli strumenti di pianificazione paesaggistica.
E ciò con un paradosso, insito nell’art. 3, co. 1, lett. d), D.P.R. 380/01: qui il Legislatore prevede oggi che la regola della necessaria ristrutturazione demoricostruttiva “fedelissima” (pena l’upgrade alla categoria della nuova costruzione) si applica inderogabilmente nelle aree tutelate ex d.lgs. 42/2004 mentre, per le zone A (e gli altri ambiti individuati dalla medesima norma) sono invece “fatte salve le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici” (con interpretazione peraltro confermata dalla Circolare congiunta Funzione Pubblica -MIT).
Qui risiede, sempre a nostro avviso, una contraddizione difficilmente spiegabile, nella misura in cui il Legislatore (del Decreto Semplificazioni 2020) prevede un grado di elasticità della norma facendo salve solo le previsioni incidenti sull’urbanistica in senso stretto (che derivino da pianificazione o da legge) e non anche quelle di cui ai Piani Territoriali Paesaggistici.
Sarebbe stato opportuno (se non doveroso, vista la posizione al vertice della pianificazione territoriale di tali strumenti, ai sensi degli artt. 135 e ss. d.lgs. 42/2004) prevedere anche con riferimento ai Piani Paesaggistici una analoga forma di “salvezza“, così da consentire a tale atto di governo del territorio (peraltro approvato, come è noto, di concerto tra Stato e Regioni) di compiere ogni più opportuna e “concreta” (ossia: non aprioristica) scelta in ordine alla possibilità di “derogare” la rigida regola ex art. 3, co. 1, lett. d), D.P.R. 380/01, avuto riguardo ad una effettiva e graduata tutela del paesaggio.
Conclusioni
Non resta ci resta che attendere, confidando che, una volta tanto, il Legislatore “prenda il toro per le corna”, anziché lasciare che la giurisprudenza, penale, amministrativa e costituzionale, faccia il suo lento e imprevedibile corso.