Abusi edilizi e Ante 67: il Consiglio di Stato sulla prova dello stato legittimo

Va posto in capo al proprietario o al responsabile dell’abuso l’onere di provare il carattere risalente del manufatto per potere escludere la necessità del previo rilascio del titolo abilitativo

di Redazione tecnica - 21/02/2024

Benché il Testo Unico Edilizia sia una norma del 2001 (il d.P.R. n. 380/2001), solo nel 2020 il legislatore ha ritenuto opportuno inserirvi all’interno la definizione di “stato legittimo” dell’immobile o dell’unità immobiliare.

Stato legittimo: cos’è

Un vuoto normativo di quasi 20 anni, colmato con l’inserimento del comma 1-bis nell’art. 9-bis (che ha cambiato titolo in “Documentazione amministrativa e stato legittimo degli immobili”) per il quale

Lo stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto ovvero da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Le disposizioni di cui al secondo periodo si applicano altresì nei casi in cui sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia.

Stato legittimo e ante ‘67

Nel caso di immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio è, dunque, necessario acquisire quegli elementi di prova della loro preesistenza e consistenza. Argomento questo che è stato affrontato dal Consiglio di Stato con l’interessante sentenza 13 febbraio 2024, n. 1445 che arricchisce un tema sul quale si è già formata una copiosa giurisprudenza.

Nel caso di specie, viene proposto ricorso per l’annullamento di una decisione di primo grado che aveva confermato la demolizione di due immobili ritenuti abusivi dal Comune. Non per il ricorrente che in secondo grado ha basato il suo ricorso sulle seguenti motivazioni:

  1. il giudice di primo grado non avrebbe preso in considerazione le prove documentali versate in giudizio dalla ricorrente in violazione dei principi del giusto processo, della parità delle parti e del contraddittorio;
  2. le ordinanze impugnate sarebbero affette da eccesso di potere per carenza di istruttoria, travisamento dei fatti, erroneità dei presupposti e di motivazione poiché la preesistenza delle due unità immobiliari si evince dallo stralcio della mappa d’impianto del catasto risalente al 1898-1916, dalla planimetria del primo Piano di Fabbricazione del 1966 e dalle fotografie storiche, tutte precedenti all’anno 1954, anno di sottoposizione a vincolo paesaggistico del Comune. Anche un’attenta lettura degli atti notarili del 1927 e 1965 conduce a conclusioni opposte da quelle contenute nei provvedimenti impugnati poiché, da un lato, nell’originario atto che fraziona il fabbricato le quote vengono identificate solo dai vani principali, senza considerare i locali accessori, mentre vengono identificate come “stalle” le unità immobiliari non aventi i requisiti di abitabilità e, dall’altro lato, la donazione ha trasferito le due unità immobiliarinell’esatta consistenza in precedenza indicata. L’identità della consistenza complessiva del fabbricato e quella del piano di copertura emerge anche dal confronto tra la foto aerea del 1985 richiamata nelle ordinanze, e quella ricavata da Google Earth;
  3. la sentenza di primo grado non si sarebbe soffermata sulle opere minori non necessitanti di titolo abilitativo, a prescindere dall’epoca della loro realizzazione.

Stato legittimo e mezzi di prova ante ‘67

Sull’argomento ricordiamo un orientamento giurisprudenziale “morbido” del TAR Sicilia che con la sentenza del 3 gennaio 2024, n. 22, ha ritenuto che sebbene l’onere della prova sulla datazione di un immobile rimanga sempre in capo al proprietario del manufatto qualora siano stati forniti sufficienti elementi plausibili ma non sia stata raggiunta la certezza processuale, spetta all’Amministrazione fornire elementi di prova contraria, in mancanza dei quali un ordine di demolizione deve essere annullato per difetto di istruttoria.

Il Consiglio di Stato ha ribadito il principio consolidato della giurisprudenza amministrativa secondo il quale va posto in capo al proprietario (o al responsabile dell’abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione l’onere di provare il carattere risalente del manufatto per potere escludere la necessità del previo rilascio del titolo abilitativo, ove si faccia questione di opera risalente ad epoca anteriore all’introduzione del regime amministrativo autorizzatorio dello ius aedificandi.

Ciò in quanto solo il privato può fornire (in quanto ordinariamente ne dispone e dunque in applicazione del principio di vicinanza della prova) inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto. Mentre l’amministrazione non può, di solito, materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno dell’intero suo territorio.

Secondo un ancor più recente orientamento, sarebbero meritevoli di rilievo elementi “mitigatori” del regime probatorio, permettendo l’ingresso di elementi indiziari prodotti dal proprietario dell’immobile o dall’autore del presunto abuso valorizzabili al fine di ritenerne la legittimità in ragione della dimostrata edificazione in epoca anteriore al 1967, senza che da siffatta mitigazione possa derivare un’inversione dell’onere della prova in capo all’amministrazione comunale poiché la prova dell’epoca di realizzazione rimane nella disponibilità della parte privata.

La documentazione prodotta dal privato deve, comunque, raggiungere un livello probatorio di verosimiglianza circa l’individuazione, almeno utilmente approssimativa, dell’epoca di realizzazione che consenta di poter superare l’indizio costituito dalla mancata rappresentazione della medesima opera edilizia nelle risultanze catastali ovvero negli atti di acquisto dell’immobile e nelle relative planimetrie allegate.

Il caso di specie

Nel caso oggetto della nuova sentenza del Consiglio di Stato, gli elementi forniti non assurgono a quel livello di verosimiglianza che consente di superare le evidenze documentali fornite dall’amministrazione circa la realizzazione dell’ampliamento e del frazionamento del fabbricato in data successiva al 1965.

Per tali ragioni, correttamente la sentenza impugnata ha respinto i ricorsi ritenendo che non fosse stata fornita la prova dello stato legittimo dell’immobile poiché i poteri istruttori del giudice non possono supplire al mancato assolvimento dell’onere della prova gravante sulle parti.

L’ammissione dei mezzi istruttori costituisce un potere ampiamente discrezionale del giudice amministrativo il cui mancato esercizio non inficia la decisione emessa poiché rimesso al prudente apprezzamento del giudicante che deve valutare, caso per caso, se le parti abbiano o meno la disponibilità delle prove. Sebbene, infatti, sia consentito al giudice disporre verificazioni ed acquisizione di atti, il ricorrente deve, tuttavia, fornire elementi di seria consistenza per consentire al giudice di esercitare simili poteri istruttori in conformità con il principio dell’onere della prova e di quello della parità delle parti invocato dall’appellante.

In particolare, la tesi dell’appellante secondo cui l’attuale consistenza degli immobili emergerebbe sia dalle mappe storiche del 1916 e del 1966 che dalla lettura degli atti notarili del 1927 e del 1965 si fonda su un’opinabile e soggettiva interpretazione dei documenti in questione che non è idonea superare l’accertamento dei fatti così come dettagliatamente illustrato nelle ordinanze impugnate.

Le opere minori

Relativamente alle opere minori non necessitanti di titolo abilitativo, a prescindere dall’epoca della loro realizzazione, il Consiglio di Stato ha ricordato un altro principio chiave della giurisprudenza per il quale l’unità funzionale delle opere abusivamente realizzate ne impone una valutazione parimenti unitaria al fine di cogliere l’effettivo impatto dell’intervento complessivamente considerato sul piano edilizio e paesaggistico.

Ne consegue che, nel rispetto del principio costituzionale di buon andamento, l’amministrazione comunale deve esaminare contestualmente l’intervento abusivamente realizzato, ciò al fine precipuo di contrastare eventuali artificiose frammentazioni che, in luogo di una corretta qualificazione unitaria dell’abuso e di una conseguente identificazione unitaria del titolo edilizio che sarebbe stato necessario o che può, se del caso, essere rilasciato, prospettino una scomposizione virtuale finalizzata all’elusione dei presupposti e dei limiti di ammissibilità della sanatoria.

Infine, per giurisprudenza pacifica, l’ordinanza di demolizione ha natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con la conseguenza che essa è già dotata di un’adeguata e sufficiente motivazione, consistente nella descrizione delle opere abusive e nella constatazione della loro abusività.

In definitiva, l’appello è stato respinto.

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