Cappotto termico su suolo pubblico? Il Comune deve provarlo!

Tra gli interventi di superbonus più utilizzati vi è la coibentazione dell’edificio mediante cappotto termico sul quale è prevista una deroga sul calcolo delle distanze

di Gianluca Oreto - 01/03/2024

Dopo quasi 4 anni di superbonus è ormai chiaro che la professione più gettonata sarà quella dell’avvocato e del consulente tecnico (d’ufficio e di parte) per far fronte ai numerosi contenzioni che si sono già attivati e che riguardano sia l’aspetto fiscale che quello edilizio.

Superbonus e cappotto termico: per 15 centimetri!

Premesso che per incentivare gli interventi di riqualificazione energetica lo Stato ha messo a punto (salvo poi ripensarci) un complicato sistema incentivante oltre che alcune deroghe espresse alle norme ordinarie sulle distanze, fa davvero tanto sorridere la lettura della sentenza del TAR Piemonte 27 febbraio 2024, n. 203 che è dovuta intervenire per trovare un punto di incontro su uno degli interventi di riqualificazione energetica più utilizzati in questi anni: la coibentazione dell’edificio mediante cappotto termico.

L’intervento principale utilizzato con le agevolazioni fiscali (superbonus) di cui all’art. 119 del Decreto Legge n. 34/2020 (Decreto Rilancio) ha messo contro il proprietario di una unità immobiliare ed un Comune. Il tema principale della contesa sono i 15 cm del cappotto termico che a detta dell’amministrazione avrebbero occupato il suolo pubblico.

Le deroghe al Codice Civile

Pur non rilevando per il caso di specie, si ricorda la seguente normativa:

  • l’art. 14 del D.Lgs. n. 102/2014, come modificato dall’art. 13 del D.Lgs. n. 73/2020 (14 luglio 2020, quindi pubblicato dopo la Legge n. 77/2020 di conversione del Decreto Rilancio);
  • l’art. 119, comma 3, ultimo periodo, del Decreto Rilancio.

La prima norma dispone:

Nel caso di interventi di manutenzione straordinaria, restauro e ristrutturazione edilizia, il maggior spessore delle murature esterne e degli elementi di chiusura superiori ed inferiori, necessario per ottenere una riduzione minima del 10 per cento dei limiti di trasmittanza previsti dal decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, e successive modificazioni, certificata con le modalità di cui al medesimo decreto legislativo, non è considerato nei computi per la determinazione dei volumi, delle altezze, delle superfici e dei rapporti di copertura. Entro i limiti del maggior spessore di cui sopra, è permesso derogare, nell'ambito delle pertinenti procedure di rilascio dei titoli abitativi di cui al titolo II del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, a quanto previsto dalle normative nazionali, regionali o dai regolamenti edilizi comunali, in merito alle distanze minime tra edifici, alle distanze minime dai confini di proprietà, alle distanze minime di protezione del nastro stradale e ferroviario, nonché alle altezze massime degli edifici. Le deroghe vanno esercitate nel rispetto delle distanze minime riportate nel codice civile”.

La secondo norma ha espressamente prevista per gli interventi di superbonus, prevede:

Gli interventi di dimensionamento del cappotto termico e del cordolo sismico non concorrono al conteggio della distanza e dell'altezza, in deroga alle distanze minime riportate all'articolo 873 del codice civile, per gli interventi di cui all'articolo 16-bis del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e al presente articolo.

Due norme che non riguardano la contestazione del Comune nel caso oggetto della sentenza ma che dovrebbero far comprendere l’attenzione del legislatore verso gli interventi di miglioramento energetico e strutturale.

Cappotto termico: le contestazioni del Comune

Nel caso di specie, però, il Comune non contesta una violazione delle distanze minime ma l’occupazione di suolo pubblico senza previa autorizzazione.

I fatti oggetto della contesa riguardano la presentazione di una CILA-Superbonus (CILAS) per una serie di interventi che prevedevano anche la coibentazione con cappotto termico isolante di un’intera facciata dello stabile rivolta verso la pubblica via, con riposizionamento del pluviale in rame esistente.

Alla CILAS il Comune ha risposto con una prima diffida a fornire chiarimenti ed integrazioni documentali, al fine di ottenere una migliore rappresentazione e descrizione delle opere in progetto, richiamando le vigenti disposizioni locali ostative alla realizzazione di aggetti verso la pubblica via, se non per la parte posizionata ad oltre 4 m dal suolo.

A questo punto si avvia un carteggio tra il Comune e l’odierno appellante che finisce con la sua piena determinazione a dare corso all’intervento, anche sulla base dell’assenza di un potere inibitorio del Comune sulla comunicazione presentata.

La faccenda, però, non termina così facilmente. Il Comune, infatti, replica evidenziando il suo convincimento in merito all’illegittimità della soluzione proposta dal privato. Secondo il Comune, il cappotto termico avrebbe costituito un aggetto su un’area di proprietà pubblica in quanto pertinenza della sede stradale, in alcun modo incisa e scriminata dalle disposizioni derogatorie invocate dal ricorrente.

A questa replica l’appellante risponde depositando un’istanza di autorizzazione all’occupazione di suolo pubblico per un’area sostanzialmente corrispondente alla proiezione al suolo del manufatto in questione (15 cm), rigettata dal Comune sulla base della natura permanente delle opere, dalla cui realizzazione sarebbe pertanto derivata una irreversibile trasformazione dei luoghi. Quindi emette un ordine di demolizione dei manufatti ritenuti abusivi per violazione dell’art. 35 del d.P.R. n. 380/2001 (Interventi abusivi realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici).

Cappotto termico: il ricorso al TAR

Da qui il ricorso al TAR basato sulle seguenti censure:

  • violazione delle garanzie procedimentali di cui agli artt. 7 e ss della Legge n. 241/90;
  • violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 380/2001;
  • violazione e falsa applicazione del D.L. n. 34/2020;
  • violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 102/2014;
  • violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione;
  • erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto;
  • contraddittorietà, irragionevolezza, illogicità, ingiustizia manifesta e sviamento;
  • eccesso di potere, violazione dei principi di efficacia, trasparenza, buon andamento dell’azione amministrativa, proporzionalità, equità, certezza e sicurezza giuridica;
  • ingiustizia ed arbitrarietà;
  • violazione dei principi di buona fede e di affidamento.

La conferma del suolo pubblico

Tralasciando le conferme sulla natura dell’ordine di demolizione (che ormai dovrebbero essere ampiamente pacifiche e conosciute da tutti) e tralasciando anche la puntualizzazione che il richiamo al concetto delle distanze minime risulta essere inconferente con il caso in esame, è molto interessante l’analisi del TAR sul concetto di suolo pubblico, ricavato da due consulenze (una d’ufficio e l’altra di parte).

Nel ricorso viene contestata l’attribuita violazione dell’art. art. 35 del Testo Unico Edilizia, ritenendo erronea e non provata la predicata realizzazione delle opere contestate su suolo pubblico.

Come già anticipato, le norme derogatorie sulle distanze non risultano idonee ad incidere in alcun modo sulla legittimità o meno di manufatti che il Comune intimato ritiene realizzati su area di proprietà pubblica.

Il TAR, però, rileva che il provvedimento impugnato (l’ordine di demolizione) risulta fondato sul presupposto che le opere da demolirsi si trovino su proprietà pubblica e solo laddove tale presupposto risulti provata dall’Ente Pubblico, quest’ultimo potrà ottenerne la rimozione ai sensi dell’art. 35 del Testo Unico Edilizia. Vviceversa, laddove tale presupposto non risulti adeguatamente dimostrato, l’intero atto è destinato a cadere.

La perizia tecnica contenente i rilevi dell’area interessata, a partire dal punto fiduciale catastale individuato quale riferimento, fornita dall’appellante circa il posizionamento dei confini del suo lotto, non prova in via definitiva l’esatto posizionamento dei confini tra le proprietà privata e pubblica, ma pone un fondato dubbio in merito all’esattezza dei rilievi compiuti dall’Amministrazione, resi più rilevanti dalla esiguità del sedime (15 centimetri) ad avviso della stessa illegittimamente occupato dal contestato cappotto termico.

L’onere di prova

La stessa perizia redatta dal professionista incaricato dall’Amministrazione, pur constatando che non vi sia alcuna rappresentazione grafica di uno spazio tra il richiamato muro ovest del fabbricato esistente e il confine della relativa particella catastale, dà atto del difficilmente superabile rapporto tra la scala della cartografia comunale e le modeste dimensioni del manufatto contestato.

Neppure le differenti produzioni del Comune intimato paiono sufficienti a superare le incertezze di cui sopra. Affermare, infatti, che la particella originaria di proprietà comunale sia stata in tempi remoti frazionata e ceduta in proprietà a soggetti privati per porzioni di minor consistenza – tra cui l’immobile oggetto di intervento - non significa provare che il confine tra la parte ceduta e l’area rimasta di proprietà pubblica coincida con la parete dello stabile verso il lato rivolto in direzione della pubblica via, in assenza di pertinenti indicazioni nel titolo traslativo.

Parimenti inidonee a conferire la necessaria certezza in merito all’estensione dei diritti dominicali sulle aree interessate si pongono le richieste di assensi edilizi ovvero di accatastamento provenienti dai proprietari dell’immobile oggetto di contestazione, in quanto, oltre alle intrinseche caratteristiche attinenti alla scala di rappresentazione utilizzata dalla cartografia, tali documenti sono comunque funzionalmente preordinati alla realizzazione ovvero rappresentazione di opere senza alcuna pretesa di specifica e definitiva individuazione dei confini delle proprietà interessate e, pertanto, privi di autonomo contenuto confessorio, parimenti non ricavabile dalla richiesta di autorizzazione all’occupazione di suolo pubblico formulata dall’esponente, rilevante al più quale elemento idoneo a corroborare un quadro probatorio già solidamente fondato, non sussistente nel caso di specie.

In definitiva, il TAR conferma che l’onere della prova, gravante sul Comune intimato, non risulta pertanto soddisfatto ed ha ritenuto illegittimo l’ordine di demolizione che ricordiamo è stato emesso per 15 cm di isolante necessario per ridurre i consumi energetici dell’interessato.

© Riproduzione riservata