Abusi edilizi, stato legittimo, ante ’67 e centro abitato: interviene il Consiglio di Stato
Consiglio di Stato: “…la definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci, per cui occorre far riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza”
Tra le novità più rilevanti inserite negli ultimi anni all’interno del d.P.R. n. 380/2001 vi è certamente il comma 2-bis, art. 9-bis che, colmando un vuoto normativo durato a lungo, ha definito per la prima volta la condizione di “stato legittimo” degli immobili e delle unità immobiliari.
Lo stato legittimo e i centri abitati
Una definizione che cambia in funzione del fatto che l’immobile o l’unità abitativa siano:
- provvisti di titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa;
- siano stati edificati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio o sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia.
Per questi ultimi esistono due date chiave che fanno da spartiacque:
- il 1942 che con la Legge n. 1150/1942 (Legge urbanistica) ha previsto l'obbligo di dotarsi di licenza edilizia nelle aree già urbanizzate (centri abitati);
- il 1967 che con la Legge n. 765/1967 (Legge Ponte) ha esteso a tutto il territorio nazionale l'obbligo di licenza edilizia anche fuori i centri abitati.
È chiaro che prima di questi anni è possibile trovarsi di fronte territori già dotati di piani regolatori e regolamenti edilizi.
Al fine di agevolare la prova di tale stato legittimo dell’immobile è consentito attingere ai titoli abilitativi relativi non solo alla sua originaria edificazione, ma anche alle sue successive vicende trasformative.
Abusi edilizi, stato legittimo, ante ’67 e centro abitato: nuova sentenza del Consiglio di Stato
Un concetto chiarito più e più volte dalla giurisprudenza amministrativa è quello che riguarda la prova della data di realizzazione dell’intervento edilizio. È ormai chiaro che l’obbligo di comprovare la preesistente consistenza di un immobile all’epoca di edificazione libera grava sulla proprietà. Il privato, cioè, è onerato a provare la data di realizzazione dell’intervento edilizio, non solo per poter fruire del beneficio di una sanatoria, ma anche - in generale - per potere escludere la necessità del previo rilascio del titolo abilitativo, ove si faccia questione di opera risalente ad epoca anteriore all’introduzione del regime amministrativo autorizzatorio dello ius aedificandi.
L’argomento è stato oggetto di un nuovo interessante intervento del Consiglio di Stato che, con la sentenza 22 marzo 2024, n. 2798, ci consente di approfondire gli aspetti legati alla prova dello stato legittimo e alla definizione di “centro abitato”.
Nel caso di specie viene contestato l’operato del Comune e una decisione di primo grado che aveva rigettato il ricorso per l’annullamento di un ordine di demolizione. Punto essenziale della vicenda è la chiusura di un vano, già utilizzato come corridoio d’accesso, successivamente adibito a rimessaggio a servizio di un ristorante.
Il volume “autonomo” e la destinazione d’uso
In particolare, il Comune, pur non negando la preesistenza volumetrica, avrebbe preteso di dequotarne la sussistenza in ragione dell’originaria finalizzazione, sicché solo la nuova tipologia di utilizzo avrebbe reso il locale “volume autonomo”.
Sul punto il Consiglio di Stato ha chiarito che il volume di un edificio, espresso in metri cubi vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani per le relative altezze effettive misurate da pavimento a pavimento del solaio sovrastante. L’inclusione nella stessa di un determinato locale, dunque, prescinde dalla finalizzazione dello stesso a mero transito per accedere ad altre stanze, ovvero, una volta venuta meno ridetta necessità, a magazzino/deposito. La destinazione d’uso, infatti, ammesso e non concesso possa assumere rilievo quella di una porzione del manufatto comunque a servizio dell’intero, non implica certo la decurtazione dal computo, ovvero la sua inclusione solo in ragione di ridetta mutata finalizzazione.
La data di realizzazione dell’intervento
Ciò premesso, la parte più interessante della sentenza riguarda l’individuazione della data di realizzazione dell’immobile nella sua consistenza finale, comprensiva del corridoio, comunque lo si voglia denominare e a prescindere dalla sua concreta utilizzazione.
Sul punto il Consiglio di Stato ha ricordato il principio consolidato per il quale l’obbligo di comprovare la preesistente consistenza di un immobile all’epoca di edificazione libera grava sulla proprietà. Solo il privato, infatti, può fornire (in quanto ordinariamente ne dispone) inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto, mentre l’amministrazione non può, in via generale, materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno del suo territorio negli anni precedenti al 1967.
Solo con l’art. 10 della legge n. 765/1967 (entrata in vigore il 1° settembre 1967), l’obbligo di licenza edilizia è stato esteso a tutti gli interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti sull’intero territorio comunale. In precedenza, l’art. 31, comma 1, della legge n. 1150 del 1942 lo prevedeva solo per certi interventi edilizi e limitatamente ad alcune zone territoriali, ovvero, per quanto qui di interesse, i centri abitati e, ove esisteva il piano regolatore comunale, anche le zone di espansione ivi espressamente indicate, salvo quanto dettato per altre zone o per tutto il territorio comunale dal Regolamento edilizio, accompagnato o meno dal Programma di fabbricazione comunale.
Nel caso di specie, l’oggetto del contendere (un corridoio) è documentato preesistesse al 1967. Esiste, infatti, una sentenza di primo grado in cui si afferma espressamente che il volume “…costituito essenzialmente da mura perimetrali, volte e due portoni in ferro risulta presente in catasto approssimativamente dal 1953”. Tesi confermata in tutte le indicazioni catastali dettagliatamente evocate dall’appellante, nonché nella rappresentazione dello stato dei luoghi al momento della presentazione dell’istanza di rilascio della concessione edilizia del 2000.
Secondo il Comune, però, sarebbe stato possibile trarre la prova dell’abusività dell’opera dalla mancata produzione della licenza edilizia che comunque sarebbe stata necessaria per chiudere il corridoio, giusta l’insistenza dell’immobile nel “borgo antico” (siamo a Bari).
Affermazione questa che non trova riscontro, non essendo stato versato in atti il titolo originario in forza del quale è stato realizzato il fabbricato, con conseguente prova dell’apertura verso la strada del corridoio, e quindi, indirettamente, della sua chiusura solo in epoca successiva. “Diversamente - rilevano i giudici - non è dato comprendere da quale circostanza, anche fattuale, la difesa civica evinca che la chiusura sia sopravvenuta e non originaria, e che solo per la stessa sarebbe stata necessaria una licenza aggiuntiva”.
Il centro abitato
Secondo il Consiglio di Stato non è neanche stata data prova dal Comune che per quella zona la “licenza del podestà” fosse davvero necessaria a far data dal 1942, stante che l’ubicazione del fabbricato nel c.d. “borgo antico” non implica affatto la sua riconduzione a ciò che, secondo le indicazioni pianificatorie dell’epoca, doveva essere perimetrato come centro abitato.
La definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci, per cui occorre far riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza. Esso trova ora riscontro nell’art. 3 del c.d. nuovo codice della strada, che lo identifica in un “insieme di edifici, delimitato lungo le vie di accesso dagli appositi segnali di inizio e fine”, che tuttavia nasce per esigenze di diversificazione delle regole di circolazione stradale.
Va, dunque, individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, comunque suscettibile di espansione, ancorché intervallato da strade, piazze, giardini o simili. La sua rilevanza urbanistica discende dalla Legge n. 765 del 1967 che introducendo l’art. 41-quinquies nella Legge n. 1150 del 1942, lo utilizza quale concetto per disciplinare l’edificazione nei comuni privi di piano regolatore o di programma di fabbricazione e, quindi, dal D.M. 1° aprile 1968, n. 1404, in ordine alle distanze dell’edificazione dal nastro stradale.
Non risponde dunque al preciso disposto del richiamato art. 41-quinquies, comma 6, della l. 17 agosto 1942, n. 1150, assimilare ciò che nel lessico comune fa pensare all’originario nucleo abitato (il “borgo antico”, appunto), alla necessaria perimetrazione di una zona espressamente richiesta dalla legge. Cadono, quindi, le considerazioni del Comune sull’irrilevanza della vetustà della chiusura, in quanto non risulta affatto provata la necessita del titolo edificatorio in quella zona del Comune sin dal 1942, ammesso e non concesso essa sia sopravvenuta alla realizzazione originaria del manufatto.
In definitiva il ricorso è stato accolto e la sentenza di primo grado riformata.
Documenti Allegati
Sentenza Consiglio di Stato 22 marzo 2024, n. 2798