Visto di conformità: la Corte Costituzionale dice no ai tributaristi

Il visto va rilasciato solo da professionisti iscritti agli ordini, muniti di particolari requisiti attitudinali e di affidabilità, a garanzia degli interessi dell’amministrazione alla corretta esecuzione dell’adempimento

di Redazione tecnica - 31/07/2024

Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 3, del d.Lgs. n. 241/1997, laddove individua i soggetti abilitati al rilascio del visto di conformità sulle dichiarazioni dei redditi e dell'imposta sul valore aggiunto solo nelle sole lettere a) e b) del comma 3 dell'art. 3 del d.P.R. n. 322/1998, ossia «gli iscritti negli albi dei dottori commercialisti, dei ragionieri e dei periti commerciali e dei consulenti del lavoro» (lettera a) e «i soggetti iscritti alla data del 30 settembre 1993 nei ruoli di periti ed esperti tenuti dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura per la sub-categoria tributi, in possesso di diploma di laurea in giurisprudenza o in economia e commercio o equipollenti o diploma di ragioneria» (lettera b), e non li individua anche «negli altri soggetti indicati dallo stesso comma 3 e, in particolare, in quelli di cui alla lett. e)», ossia «gli altri incaricati individuati con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze».

Tributaristi e visto di conformità: il divieto non è incostituzionale

A stabilirlo è stata la Corte Costituzionale con la sentenza del 24 luglio 2024, n. 144, in risposta alla questione, sollevata con l’ordinanza del Consiglio di Stato del 31 gennaio 2024, n. 995, in riferimento agli artt. 3, 41 e 117, primo comma, della Costituzione.

Le questioni rimesse dal Consiglio di Stato

Secondo la sezione rimettente, l’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 241 del 1997, nel riservare il rilascio del visto di conformità solo a taluni professionisti, violerebbe:

  • i principi di ragionevolezza e di non discriminazione di cui all’art. 3 Cost., in quanto l’ordinamento consente ai tributaristi, benché non iscritti in ordini o collegi, di operare come consulenti fiscali, di predisporre e trasmettere le dichiarazioni fiscali, nonché di trattare e conservare i dati contabili. Ne conseguirebbe una disparità di trattamento non giustificata, alla luce del riconoscimento delle professioni non organizzate in ordini o collegi di cui alla legge n. 4 del 2013, in base alla quale il controllo sull’esistenza dei requisiti di capacità e correttezza e sul rispetto della deontologia professionale risulta adeguatamente perseguibile attraverso strumenti privatistici, quali sono le associazioni professionali disciplinate all’art. 2 della stessa legge;
  • in secondo luogo, l’art. 41 Cost., in quanto dalla disposizione censurata deriverebbe l’effetto di limitare, per le categorie non comprese nella riserva ex lege, il libero esercizio dell’attività̀ professionale, incidendo negativamente sulla libertà di iniziativa economica dei tributaristi, i quali subirebbero uno sviamento di clientela verso i professionisti iscritti agli ordini anche per attività̀ non riservate a questi ultimi, in contrasto con il principio di concorrenza;
  • infine, l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 56 TFUE e 16 della direttiva 2006/123/CE, per lesione del diritto alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione, in quanto la prospettata discriminazione in danno della categoria di professionisti non costituiti in un ordine non sarebbe necessaria, mancando un sottostante motivo imperativo di interesse generale, né sarebbe proporzionata, eccedendo rispetto agli obiettivi di tutela dell’interesse fiscale dello Stato.

Nella questione è intervenuta anche l’Avvocatura di Stato, osservando che i professionisti  abilitati garantiscono in modo intenso l’amministrazione finanziaria circa la professionalità̀ e la correttezza nell’apposizione del visto, in quanto hanno superato un esame di Stato o hanno conseguito una laurea abilitante alla professione; inoltre, essendo iscritti ad un albo vigilato da uffici ministeriali, sono soggetti a pregnanti obblighi deontologici, al controllo sullo svolgimento corretto e regolare dell’attività̀ professionale e al potere disciplinare esercitato dall’ordine o collegio di appartenenza.

La legge n. 4/2013, lungi dall’avere sostanzialmente assimilato le due categorie di professioni, ne avrebbe confermato la scissione in ordine alle attività, là dove, all’art. 2, comma 6, ha previsto che ai professionisti non organizzati in ordini o collegi, anche se iscritti alle associazioni professionali di natura privatistica disciplinate dallo stesso art. 2, «non è consentito l’esercizio delle attività̀ professionali riservate dalla legge a specifiche categorie di soggetti, salvo il caso in cui dimostrino il possesso dei requisiti previsti dalla legge e l’iscrizione al relativo albo professionale».

Sarebbe pertanto evidente che il legislatore del 2013 non ha parificato, ai fini che qui interessano, «i soggetti di cui alle lettere a) e b) rispetto a quelli di cui alla lettera e)», avendo ribadito il divieto per i secondi, in quanto non iscritti, di svolgere un’attività riservata dalla legge solo ai primi, in quanto iscritti.

Né sarebbe sufficiente, ai fini dell’assimilazione prospettata dal giudice a quo, la prevista possibilità che le menzionate associazioni professionali siano iscritte in un apposito elenco pubblicato nel sito internet del Ministero delle imprese e del made in Italy, in quanto l’attività̀ ministeriale di vigilanza conseguente a tale iscrizione non sarebbe esercitata sulle professioni non organizzate, ma esclusivamente sulla «corretta attuazione delle disposizioni della […] legge» (art. 10, comma 1, della legge n. 4 del 2013).

Visto di conformità: presupposti e soggetti abilitati al rilascio

Nel merito, la Consulta ha specificato che il visto di conformità ha lo scopo di garantire ai contribuenti assistiti un corretto adempimento di taluni obblighi tributari e di agevolare l’amministrazione finanziaria nella selezione delle posizioni da controllare e nell’esecuzione dei controlli di propria competenza.

In particolare:

  • il visto di conformità "leggero" di cui al comma 2, lettera a), dell’art. 35 del d.lgs. n. 241 del 1997 ha per oggetto la «conformità dei dati delle dichiarazioni unificate alla relativa documentazione». Il regolamento di cui al d.m. 31 maggio 1999, n. 164, emanato ai sensi dell’art. 40 del d.lgs. n. 241 del 1997, precisa che esso implica «il riscontro della corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione alle risultanze della relativa documentazione e alle disposizioni che disciplinano gli oneri deducibili e detraibili, le detrazioni e i crediti d’imposta, lo scomputo delle ritenute d’acconto» (art. 2, comma 1). Ne consegue che l’apposizione del visto attesta la corretta determinazione anche degli imponibili e dei relativi importi dovuti a titolo di saldo o di acconto ovvero dei rimborsi spettanti al contribuente assistito.
  • Il visto di conformità "pesante" di cui al comma 1, lettera a), della stessa disposizione ha per oggetto la «conformità dei dati delle dichiarazioni predisposte […] alla relativa documentazione e alle risultanze delle scritture contabili, nonché di queste ultime alla relativa documentazione contabile». Lo stesso regolamento precisa (all’art. 2, comma 2) che esso implica, inoltre: «a) la verifica della regolare tenuta e conservazione delle scritture contabili obbligatorie ai fini delle imposte sui redditi e delle imposte sul valore aggiunto; b) la verifica della corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione alle risultanze delle scritture contabili e di queste ultime alla relativa documentazione».

Spiega la Consulta che la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. non è fondata.

La stessa legge n. 4/2013 prevede, al comma 6 dell’art. 2, che «ai professionisti di cui all’art. 1, comma 2, anche se iscritti alle associazioni di cui al presente articolo, non è consentito l’esercizio delle attività̀ professionali riservate dalla legge a specifiche categorie di soggetti, salvo il caso in cui dimostrino il possesso dei requisiti previsti dalla legge e l’iscrizione al relativo albo professionale».

Il legislatore del 2013 distingue, quindi, le due categorie sotto lo specifico profilo delle attività che la legge può riservare ai professionisti organizzati in ordini o collegi.

Nessuna equiparazione è dunque predicabile, avendo proprio la legge n. 4/2013 ribadito il divieto per i professionisti non organizzati, anche se iscritti alle associazioni, di svolgere un’attività riservata dalla legge a specifiche categorie di soggetti.

In secondo luogo, non rileva che le associazioni professionali di cui all’art. 2 della legge n. 4 del 2013 siano «inquadrate in un sistema pubblicistico di vigilanza ministeriale», come afferma il giudice a quo, attesa la possibilità che esse si iscrivano volontariamente nell’elenco pubblicato sul sito del MIMIT. Tale iscrizione comporta esclusivamente un’attività ministeriale di vigilanza sulla corretta attuazione delle disposizioni della legge da parte delle associazioni, senza poteri di cancellazione dall’elenco e di vigilanza sui professionisti.

Ordini professionali: natura e funzioni

Quanto agli ordini professionali, come quelli a cui appartengono i professionisti abilitati al rilascio del visto di conformità, la costante giurisprudenza di questa Corte, li ha configurati come “enti pubblici ad appartenenza necessaria”.

La Corte ha, inoltre, riconosciuto che la loro istituzione e disciplina risponde all’esigenza di tutelare un rilevante interesse pubblico la cui unitaria salvaguardia richiede che sia lo Stato a prevedere specifici requisiti di accesso, affidando loro  il compito di curare la tenuta degli albi nonché di controllare il possesso e la permanenza dei requisiti in capo a coloro che sono già iscritti o che aspirino ad iscriversi, in vista dell’obiettivo di “garantire il corretto esercizio della professione a tutela dell’affidamento della collettività”

Si tratta, in altri termini, di organismi associativi a partecipazione obbligatoria cui il legislatore statale ha affidato poteri, funzioni e prerogative, sottoposti a vigilanza da parte di organi dello Stato-apparato, tutti preordinati alla tutela di pregnanti interessi di rilievo costituzionale, connessi all’esercizio di attività professionali.

Questi poteri, funzioni e prerogative sono dunque più estesi ed effettivi di quelli esercitati dalle associazioni previste dalla legge n. 4 del 2013, in quanto sottoposti a diretta vigilanza da parte di organi statali e corredati da incisive potestà disciplinari nei confronti degli iscritti, che possono determinare, tra l’altro, la sospensione o la radiazione, con conseguente impossibilità (temporanea o definitiva) di esercitare legittimamente la professione, e quindi tutte le attività per cui è richiesta l’iscrizione all’albo.

A ciò va aggiunto che il legittimo accesso agli albi presuppone il superamento di un apposito esame di Stato diretto alla verifica dei requisiti necessari per l’esercizio della professione, non previsto per l’iscrizione alle citate associazioni.

L’interesse pubblico connesso al visto di conformità

È da considerare il rilevante interesse pubblico correlato al rilascio del visto di conformità, che non si risolve nella mera predisposizione e trasmissione delle dichiarazioni o nella tenuta delle scritture e dei dati contabili, ma è diretto ad agevolare e rendere più efficiente l’esercizio dei poteri di controllo e di accertamento dell’amministrazione finanziaria, con assunzione della relativa responsabilità (si pensi, ad esempio, alla corretta determinazione degli oneri detraibili collegati al cosiddetto “superbonus edilizio”).

Non è dunque irragionevole, sottolinea la Corte, abilitare al rilascio del visto i professionisti iscritti a ordini, che, avendo superato un esame di Stato per accedere agli albi ed essendo soggetti alla penetrante vigilanza degli ordini anche sul piano deontologico, sono muniti di particolari requisiti attitudinali e di affidabilità, a garanzia degli interessi dell’amministrazione alla corretta esecuzione dell’adempimento.

In definitiva, sono da escludere sia la discriminazione che l’irragionevolezza prospettate dal rimettente, in riferimento all’art. 3 Cost.

Ok alla limitazione della libertà di iniziativa economica se si antepongono interessi dello Stato

Per quanto riguarda la violazione dell’art. 41 Cost. sulla libertà di iniziativa economica dei tributaristi non iscritti agli ordini, i quali subirebbero uno sviamento di clientela verso i professionisti iscritti anche per attività̀ non riservate a questi ultimi, in contrasto con il principio di concorrenza, lo stesso articolo dispone che «sono ammissibili limiti della libertà d’iniziativa economica privata, purché giustificati dall’esigenza di tutelare interessi di rango costituzionale», ferma la necessaria «congruità e proporzionalità delle relative misure, risultando in tal modo chiara la correlazione esistente tra tale parametro e l’art. 3 Cost.»

I limiti all’esercizio della libertà di iniziativa economica censurati dal rimettente sono giustificati dall’utilità sociale non arbitrariamente individuata nelle già indicate esigenze, corrispondenti a interessi di rango costituzionale, di buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione finanziaria, ex art. 97 Cost.

Infine, la disposizione censurata violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., per lesione del diritto dei professionisti non costituiti in ordini o collegi alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione europea. In particolare, la discriminazione di tale categoria di professionisti non sarebbe necessaria, mancando un sottostante motivo imperativo di interesse generale, né sarebbe proporzionata, eccedendo rispetto agli obiettivi di tutela dell’interesse fiscale dello Stato.

Alla stregua di quanto indicato per l’art. 41, ricorda la Corte che anche secondo la CGUE una restrizione alla libera prestazione dei servizi è comunque giustificata a condizione che essa persegua un obiettivo di interesse generale (ossia risponda a motivi imperativi di interesse pubblico), sia idonea a garantire la realizzazione dello stesso e non ecceda quanto necessario per raggiungerlo.

La decisione della Corte Costituzionale

In conclusione, la scelta operata dal legislatore non è sproporzionata, in quanto una disciplina meno restrittiva, che consenta il rilascio del visto di conformità a chiunque presti liberamente consulenza fiscale, non offrirebbe le medesime garanzie di attitudine, di affidabilità e di sottoposizione dei professionisti a controlli stringenti, che possono condurre alla sospensione o alla cessazione della loro attività.

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