Difformità edilizie totali e parziali: il Consiglio di Stato chiarisce la differenza

La sentenza del Consiglio di Stato chiarisce la differenza che esiste tra difformità edilizie totali e parziali, colmando un vuoto del d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia)

di Gianluca Oreto - 18/10/2024

Benché sia chiara a tutti gli operatori del settore la distanza esistente tra l’attuale normativa edilizia (il d.P.R. n. 380/2001, c.d. Testo Unico Edilizia) e lo stato di fatto del patrimonio immobiliare (oltre che delle rinnovate esigenze socio-economiche), il Legislatore ha sempre provato ad intervenire rattoppando un vestito di cui non se ne intravede più la stoffa originale.

Le modifiche e le complessità del Testo Unico Edilizia

In questo susseguirsi di interventi di modifica, molto spesso la tendenza è stata quella di inserire alcuni principi consolidati di una giurisprudenza amministrativa che nel frattempo era intervenuta chiarendo concetti rimasti oscuri per anni.

Altre volte è capitato, invece, che alcuni interventi di modifica previsti per “semplificare” siano riusciti solo a complicare il lavoro di chi a diverso titolo lavora nel settore delle costruzioni. È quello che sta capitando dopo la “semplificazione” arrivata con la Legge n. 105/2024 di conversione del D.L. n. 69/2024 (Decreto Salva Casa).

In questo caso, sono evidenti alcune complessità nella formulazione di alcuni degli articoli del Testo Unico Edilizia (TUE) modificati e/o integrati dal Salva Casa. Si pensi alla rinnovata definizione di stato legittimo o le incertezze legate all’attestazione della “data” di realizzazione di un intervento prevista agli articoli 34-ter e 36-bis nel caso non sia possibile attestare l'”epoca di realizzazione”.

Tra le complessità più rilevanti occorre certamente annoverare la nuova sanatoria semplificata di cui all’art. 36-bis del TUE, utilizzabile per regolarizzare le “parziali difformità” e le variazioni essenziali. Argomento sul quale vale la pena analizzare una recente e interessante sentenza del Consiglio di Stato (la n. 8072 dell’8 ottobre 2024).

Il quadro normativo di riferimento

Preliminarmente il Consiglio di Stato ricostruisce il quadro normativo edilizio, partendo dalla Legge urbanistica n. 1150 del 1942, sia nel suo testo originario che in quello innovato dalla Legge n. 765 del 1967 (Legge Ponte)

In particolare, la Legge n. 1150/1942 ha sempre previsto che il committente titolare della licenza edilizia, il direttore dei lavori (quest’ultimo a partire dalla disciplina introdotta nel 1967), nonché l’assuntore dei lavori fossero «responsabili di ogni inosservanza così delle norme generali di legge e di regolamento come delle modalità esecutive che siano fissate nella licenza di costruzione».

A garanzia del rispetto di tale disciplina, il podestà, prima, e il sindaco, poi, avevano il compito di vigilare sull’attività edilizia e dovevano ordinare l’immediata sospensione dei lavori con riserva dei provvedimenti che risultassero necessari per la modifica delle costruzioni o per la rimessa in pristino.

Con la legge n. 10 del 1977 (Legge Bucalossi), il regime sanzionatorio è stato semplicemente graduato secondo uno schema generale tuttora vigente:

  • le opere eseguite in assenza di concessione o in totale difformità dalla stessa dovevano essere demolite a spese del proprietario o del costruttore;
  • le opere realizzate in parziale difformità dovevano essere demolite a spese del concessionario, ma, ove non potessero essere rimosse senza pregiudizio per le parti conformi, il concessionario restava assoggettato a una sanzione amministrativa pecuniaria.

A tale schema è stato successivamente aggiunta la differenziazione tra variazioni essenziali e non essenziali, introdotta dagli artt. 7 e 8 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), di seguito trasfusi negli artt. 31 e 32 d.P.R. n. 380 del 2001.

La Corte Costituzionale (sentenza n. 217/2022) ha chiarito che “le variazioni essenziali vengono assoggettate al più severo regime sanzionatorio proprio della totale difformità, mentre quelle non essenziali restano ascritte al vizio della parziale difformità, correlato alle sanzioni stabilite, all’epoca, dall’art. 12 della legge n. 47 del 1985 e, di seguito, dall’art. 34 t.u. edilizia».

Tali differenze non sfuggono neanche al regime introdotto dal D.L. n. 133/2014 che ha inserito il comma 2-bis nell’art. 22 del TUE, in cui viene contemplata la possibilità di presentare una segnalazione certificata d’inizio attività (SCIA) in caso di varianti al permesso di costruire che non costituiscano variazioni essenziali, se realizzate in corso di esecuzione dei lavori.

La legittimità delle opere in parola sussiste, pertanto, soltanto a condizione che la SCIA inerente alle varianti al permesso di costruire sia comunicata a fine lavori, tramite attestazione del professionista. Di conseguenza, la citata disciplina non può risolvere il problema delle variazioni non essenziali che non soddisfino tale condizione, le quali continueranno a costituire una parziale difformità ai sensi dell’art. 34 t.u. edilizia, salva l’eventuale sanatoria di cui all’art. 36 t.u. edilizia, ove ne ricorrano i presupposti.

Variazioni essenziali e non, difformità edilizie totali e parziali

A questo punto il Consiglio di Stato ha ricordato gli artt. 31 e 32 del TUE a mente dei quali:

  • si è in presenza di difformità totali del manufatto o variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, allorché i lavori riguardino un’opera “diversa” da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione;
  • si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera.

Stando alla definizione enunciata all’art. 32 del TUE, dà luogo a una variante essenziale ogni modifica incompatibile con il disegno globale ispiratore dell’originario progetto edificatorio, tale da comportare il mutamento della destinazione d’uso implicante alterazione degli standard, l’aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito e la violazione delle norme vigenti in materia antisismica; la nozione in esame non ricomprende, invece, le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.

L’attribuzione a un intervento edilizio della natura di variazione essenziale comporta rilevanti conseguenze:

  • le varianti in senso stretto al permesso di costruire, ai sensi dell’art. 22, comma 2, t.u. edilizia, e cioè le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare e accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all’originario permesso a costruire;
  • le variazioni “essenziali”, giacché caratterizzate da incompatibilità con il progetto edificatorio originario in base ai parametri ricavabili, in via esemplificativa, dall’art. 32 t.u. edilizia, sono soggette al rilascio di un permesso a costruire del tutto nuovo e autonomo rispetto a quello originario.

Un ulteriore richiamo alle variazioni essenziali è stato operato dall’art. 36-bis del TUE, introdotto dal Decreto Salva Casa.

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