Abuso parziale o totale? Interviene il Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato chiarisce le differenze tra abuso totale e parziale, e quando la sanzione demolitoria è l’unica possibilità prevista dal Testo Unico Edilizia

di Gianluca Oreto - 25/03/2025

Quali sono gli elementi distintivi di un intervento realizzato in parziale difformità da uno in totale difformità? Quando la sanzione demolitoria diventa ineludibile?

Abuso parziale o totale: nuova sentenza del Consiglio di Stato

Sono domande all’ordine del giorno per chi si occupa di edilizia e urbanistica, la cui risposta è divenuta di fondamentale importanza soprattutto alla luce delle modifiche apportate al d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia o TUE) dalla Legge n. 105/2024, che ha convertito il D.L. n. 69/2024 (Salva Casa). Aggiornamento importante perché ha previsto due diverse procedure di sanatoria edilizia a seconda che si tratti di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso (art. 36, TUE), oppure di interventi realizzati in parziale difformità o con variazioni essenziali (art. 36-bis, TUE).

In questo contesto risulta chiaro che inquadrare correttamente l’abuso edilizio è fondamentale per comprendere anche le possibilità di gestione delle difformità.

A queste domande risponde (quasi quotidianamente) la giustizia amministrativa con interventi che (chiaramente) vanno contestualizzati per comprenderne la portata applicativa. Tra questi, la sentenza 24 marzo 2025, n. 2424 mediante la quale il Consiglio di Stato ha chiarito che la qualificazione dell’abuso non può prescindere da una valutazione tecnico-funzionale del manufatto realizzato.

L’intervento contestato

Nel caso in esame, la proprietaria di un fondo agricolo aveva realizzato un’opera con caratteristiche profondamente diverse rispetto a quanto assentito con concessione edilizia: un piano interrato che, nei fatti, risulta parzialmente fuori terra, tamponato con porte e finestre, e destinato a funzioni di deposito per automezzi e materiali. Un uso, dunque, non solo diverso, ma anche urbanisticamente rilevante rispetto all’originaria destinazione agricola.

L’interessata ha tentato di difendersi richiamando il titolo edilizio originario e sostenendo che le difformità fossero parziali e sanabili o comunque soggette a sanzione pecuniaria, ma i giudici di primo grado hanno ricondotto l’intervento alla fattispecie di totale difformità di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.

Rientrando tra gli interventi in totale difformità, l’abuso, dunque, avrebbe potuto essere sanato ai sensi dell’art. 36 del TUE (ricorrendo il requisito della doppia conformità) oppure demolito.

La qualificazione dell’abuso

Il punto centrale della sentenza risiede proprio nella qualificazione tecnica e giuridica dell’intervento abusivo. Il Consiglio di Stato ha chiarito che non è sufficiente l’esistenza di un titolo edilizio per sottrarsi alla qualificazione di totale difformità. Se ciò che è stato costruito rappresenta un organismo edilizio sostanzialmente diverso da quello assentito, per sagoma, tipologia costruttiva e destinazione funzionale, non può trattarsi di “abuso parziale”.

Nel caso concreto, i giudici sottolineano che:

  • il piano interrato “autorizzato” è stato realizzato con due lati fuori terra, tamponature in muratura, porte e finestre, e una suddivisione interna funzionale (wc, spogliatoio);
  • ciò ha determinato una modifica sostanziale dell’edificio, rendendolo funzionalmente e strutturalmente diverso rispetto al progetto assentito;
  • di conseguenza, l’opera deve essere qualificata come in totale difformità.

Sanatoria e mutamento della destinazione d’uso

Un altro aspetto rilevante è il rigetto del tentativo di spostare il dibattito sul piano della possibile sanabilità dell’intervento. Il Consiglio di Stato ha ribadito un principio ormai consolidato: l’adozione dell’ingiunzione a demolire non è subordinata alla preventiva verifica della sanabilità ai sensi dell’art. 36 del TUE. La presenza di un parere comunale favorevole alla sanatoria (rilasciato nel 2015) non scalfisce la legittimità dell’ordinanza repressiva del 2019.

I giudici di Palazzo Spada hanno, inoltre, precisato che anche le opere in parziale difformità (art. 34 TUE) sono soggette a demolizione, salvo che questa non pregiudichi la parte conforme – circostanza da valutare solo in fase esecutiva, e non nella legittimità dell’ordine di demolizione.

Infine, merita attenzione la questione del mutamento di destinazione d’uso: da “annesso agricolo” a “rimessa industriale”. L’appellante ha tentato di minimizzare l’intervento, definendolo un uso “di fatto”. Ma la legge regionale impone il permesso di costruire anche per mutamenti funzionali tra categorie urbanisticamente rilevanti, anche se senza opere. E nel caso specifico, il mutamento era accompagnato da opere strutturali, consolidando così l’illegittimità urbanistica dell’intervento.

Sul tema del cambio della destinazione d’uso, è opportuno ricordare le recenti modifiche apportate all’art. 23-ter del TUE dal Salva Casa. Modifiche a seguito delle quali:

  • se il cambio avviene senza opere: si presenta la SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività);
  • se il cambio avviene con opere: si presenta il titolo richiesto per la realizzazione delle opere stesse con la particolarità che:
    • se l’intervento è soggetto a CILA, si presenta comunque la SCIA.
    • se l’intervento è soggetto a SCIA, SCIA alternativa al PdC o Permesso di Costruire, il titolo edilizio necessario segue quello delle opere previste.

Conclusioni

La sentenza è un utile promemoria: la qualificazione degli abusi edilizi non si gioca sulla forma, ma sulla sostanza tecnica e funzionale dell’intervento. La presenza di un titolo edilizio non salva un’opera che, per sagoma, volumetria o destinazione d’uso, si discosta radicalmente da quanto assentito.

La demolizione resta la sanzione ordinaria nei casi di totale o parziale difformità, e ogni valutazione sulla sanabilità o sulla fiscalizzazione dell’abuso va operata solo dopo, in fase esecutiva, e solo nei limiti previsti dalla legge.

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