Demolizione e ricostruzione di edifici crollati: la ristrutturazione edilizia non ha limiti temporali

Il Consiglio di Stato rilancia il dibattito sulla qualificazione dell’intervento di demolizione e ricostruzione alla luce della definizione di ristrutturazione edilizia contenuta nel d.P.R. n. 380/2001

di Gianluca Oreto - 23/04/2025

Un intervento di demolizione e ricostruzione va qualificato come nuova costruzione o ristrutturazione edilizia? Quando un edificio può dirsi “esistente” ai fini della ristrutturazione edilizia?

Demolizione e ricostruzione di edifici crollati: la ristrutturazione edilizia secondo il Consiglio di Stato

A queste domande ha risposto il Consiglio di Stato con la sentenza n. 2857 del 3 aprile 2025, che interviene con chiarezza su una delle questioni più controverse in materia edilizia: la distinzione tra ristrutturazione e nuova costruzione nei casi di ricostruzione di immobili crollati.

Una sentenza che, ancora una volta, dimostra quanto sia urgente e necessario un intervento organico di riforma del d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia). La definizione di “ristrutturazione edilizia”, contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. d), è forse uno degli esempi più evidenti delle difficoltà che il legislatore incontra nel semplificare realmente il quadro normativo. Dopo numerose modifiche – a partire dal D.Lgs. n. 301/2002 fino al D.L. n. 69/2013, passando per gli interventi del 2020 e del 2022 – il risultato è un testo che non solo non ha chiarito la distinzione tra le diverse categorie di interventi, ma ha finito per sovrapporle e renderne spesso incerta l’applicazione.

Le conseguenze operative di questa confusione ricadono su tecnici, amministrazioni e cittadini, che si trovano quotidianamente ad affrontare incertezze interpretative e prassi disomogenee. Eppure la ristrutturazione edilizia, soprattutto nella sua forma di demolizione e ricostruzione, è oggi uno degli strumenti principali per la rigenerazione del patrimonio edilizio esistente. Proprio per questo, occorrerebbe una definizione chiara, stabile e coerente, capace di guidare l’interprete e garantire certezza del diritto.

Il nuovo intervento del Consiglio di Stato contribuisce a ricostruire un quadro più logico e sistematico, che però non può sostituirsi a un intervento legislativo che – auspicabilmente – dovrebbe riscrivere l’intero impianto definitorio dell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, superando l’attuale frammentazione normativa.

Il caso esaminato

La vicenda riguarda il diniego di un permesso di costruire, motivato sul presupposto che un intervento edilizio su un immobile crollato da tempo non potesse qualificarsi come ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001, nella versione modificata dal D.L. n. 69/2013, convertito dalla Legge n. 98/2013. Il TAR aveva confermato tale impostazione, sostenendo l’irretroattività della disposizione normativa. Il Consiglio di Stato, invece, ha riformato la decisione con un’articolata motivazione, chiarendo che:

  • la ristrutturazione edilizia può riguardare anche edifici crollati o demoliti prima dell’entrata in vigore della legge di modifica del 2013, purché l’intervento di ricostruzione sia realizzato successivamente e sia possibile accertare la preesistente consistenza del manufatto;
  • l’utilizzo dell’avverbio “eventualmente” nella norma («edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti») esclude qualsiasi condizione temporale vincolante per l’applicazione della disposizione;
  • ciò che rileva è la finalità di recupero del patrimonio edilizio esistente, indipendentemente dalla data del crollo o della demolizione.

La parte della norma di cui si discute è il seguente periodo contenuto nella citata lettera d), comma 1, art. 3, del Testo Unico Edilizia: “Costituiscono inoltre ristrutturazione edilizia gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.

Il presupposto della "preesistente consistenza"

Il Consiglio di Stato ha ribadito un principio ormai pacifico: la ristrutturazione edilizia presuppone l’esistenza materiale di un organismo edilizio definibile nelle sue linee strutturali, anche se parzialmente compromesso. Non si può invece parlare di ristrutturazione quando residuano solo frammenti murari non idonei a ricostruire in modo certo sagoma e volumetria, poiché in tal caso si configura una nuova costruzione.

Nel caso di specie, la sentenza ha anche evidenziato l’irragionevolezza di un’interpretazione che negherebbe l’applicabilità della norma proprio nei casi che la stessa intende disciplinare: ovvero gli interventi su immobili crollati o demoliti. Sarebbe illogico, secondo i giudici di Palazzo Spada, applicare regole diverse per immobili crollati poco prima o poco dopo l’entrata in vigore della legge, determinando un’irragionevole disparità di trattamento.

Conclusioni

Il nuovo intervento del Consiglio di Stato ci restituisce un principio tanto semplice quanto spesso dimenticato: la ristrutturazione edilizia, anche nella forma della demolizione e ricostruzione, è e resta uno strumento di recupero dell’esistente, non un alibi per nuove costruzioni mascherate né una trappola normativa per chi tenta un intervento legittimo.

Il punto decisivo non è il momento in cui l’edificio è crollato, ma la possibilità di accertarne con chiarezza la preesistente consistenza. È una linea interpretativa coerente con la finalità conservativa dell’art. 3 del Testo Unico Edilizia, ma che continua a scontrarsi con un impianto normativo caotico, stratificato e talvolta schizofrenico.

È qui che la giurisprudenza si trova – ancora una volta – a svolgere un lavoro che dovrebbe spettare al legislatore: ricostruire coerenza, garantire certezza, offrire strumenti applicabili a chi opera quotidianamente sul campo. Ma per quanto puntuale sia questa pronuncia, non possiamo affidarci sempre e solo ai tribunali per dare senso e direzione alla disciplina edilizia.

Il tempo delle modifiche frammentarie è finito. Serve una riforma radicale del d.P.R. n. 380/2001, capace di riscrivere le categorie degli interventi edilizi con linguaggio chiaro, sistematico e aderente alle reali esigenze di rigenerazione urbana e sostenibilità. Una riforma che parli non solo ai giuristi, ma anche ai tecnici, ai cittadini e alle pubbliche amministrazioni.

Continuare a ignorare questa urgenza significa alimentare conflitti, generare paralisi istruttorie e lasciare tecnici e amministrazioni nel limbo dell’incertezza operativa. La giustizia amministrativa, come in questo caso, può indicare la direzione, ma non può e non deve sostituirsi alla responsabilità del legislatore.

È tempo di cambiare metodo. Per questo rilancio una proposta concreta: la riforma del Testo Unico Edilizia sia affidata a una commissione mista, composta da tecnici, giuristi, operatori del settore e rappresentanti delle imprese, ma coordinata dal Consiglio di Stato, così come già avvenuto, con risultati apprezzabili, per la normativa sui contratti pubblici.

Solo una sinergia tra competenza giuridica, conoscenza tecnica e consapevolezza operativa può restituire al settore edilizio una norma chiara, applicabile e in linea con le trasformazioni del patrimonio costruito. E, soprattutto, una norma che non costringa la giurisprudenza a dover supplire continuamente a una politica assente o disattenta.

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