Interdizione dall'attività professionale per le società che reiterano nel tempo gli illeciti

Il professionista, anche in forma societaria, è interdetto dall'esercizio della sua attività professionale se compie degli illeciti per i quali abbia tratto ...

10/02/2012
Il professionista, anche in forma societaria, è interdetto dall'esercizio della sua attività professionale se compie degli illeciti per i quali abbia tratto un profitto di rilevante entità oppure nel caso abbia reiterato nel tempo gli illeciti, a prescindere dal profitto complessivo che ne sarebbe derivato.

Questo è in sintesi il contenuto della sentenza n. 4703 del 7 febbraio 2012, con la quale la Seconda Sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha rigettato un ricorso presentato da un professionista per l'annullamento dell'ordinanza del Tribunale di riesame che aveva applicato alla società professionale (in forma s.a.s.) la misura cautelare dell'interdizione dell'attività professionale per un anno.

I giudici della Suprema Corte, ricordando l'art. 13 del D.Lgs. n. 231/2001, hanno affermato che l'applicabilità delle sanzioni interdittive si applicano in relazione ai reati per i quali sono espressamente previste, quando ricorre almeno una delle seguenti condizioni:
  • è stato tratto dal reato un profitto di rilevante entità e il reato è stato commesso da soggetti in posizione apicale ovvero da soggetti sottoposti all'altrui direzione quando, in questo caso, la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative;
  • in caso di reiterazione degli illeciti.

Nel caso di specie, la difesa del professionista affermava invece che l'interdizione del Tribunale di riesame era arrivata solo per la reiterazione delle condotte e non dall'entità del profitto, violando gli artt. 9 e 46 del DLgs. n. 231/2001 in materia di responsabilità amministrativa delle società.

Nella realtà dei fatti, l'art. 9 del DLgs n. 231/2001 definisce le sanzioni amministrative ed in particolare quelle interdittive come:
  • l'interdizione dall'esercizio dell'attività;
  • la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito;
  • il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
  • l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi;
  • il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Mentre l'art. 46 definisce i criteri di scelta delle misure, ammettendo che nel disporre le misure cautelari, il giudice deve tenere conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto. Inoltre, ogni misura cautelare deve essere proporzionata all'entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere applicata all'ente e l'interdizione dall'esercizio dell'attività può essere disposta in via cautelare soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata.

Ciò premesso ed in virtù dell'art. 13 del DLgs n. 231/2001, è stato facile per i giudici della Cassazione confutare la tesi della difesa definendola infondata e pretestuosa "perché l'art. 13 del DLgs n. 231/2001 subordina l'applicabilità delle sanzioni interdittive alla circostanza che l'ente abbia tratto dal reato un profitto di rilevante entità, ovvero, in alternativa, che l'ente abbia reiterato nel tempo gli illeciti".

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